lunedì 9 febbraio 2015

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Apocalissi culturali: tavola n.11














da "La fine del mondo" di Ernesto De Martino

INTERSEZIONI:
Judith Butler, Critica della violenza etica
“prima ancora di acquisire un ‘io’, io sono un essere che è stato toccato, spostato, nutrito, cambiato, messo a dormire, costituito come oggetto e soggetto di parole. Il mio corpo infantile, appena nato, non è stato solo toccato, spostato e sistemato, ma queste intrusioni hanno operato come ‘segni tattili’ che si sono depositati nella mia formazione. E tali segni mi comunicano in modi che non sono riducibili alla verbalizzazione. Sono segni di un altro (o meglio di un’altra), ma sono anche tracce da cui un ‘io’ eventualmente emergerà, un ‘io’ che non sarà mai in grado di ri(s)coprire o rileggere pienamente questi segni, e per il quale questi segni resteranno in parte qualcosa di opprimente e di illeggibile, di enigmatico e formativo.”

sogni di terra

Ernesto De Martino, La fine del mondo:

“La nostra esperienza cosmogonica ebbe inizio attraverso il calore del corpo materno, quando cominciò oscuramente a delinearsi secondo il confine della pelle, l’orizzonte di una patria. Nello sfondo affettivo di quel calore diffuso conquistammo la nostra bocca succhiando il latte, e come bocca emergemmo nell’ingordo piacere della nutrizione. Sotto la carezza della mano materna si venne descrivendo e precisando la superficie del nostro corpo, così come per l’immagine del volto materno conquistammo l’umanità del vedere, del riconoscere, del sorridere: “incipe, parve puer, risu cognioscere matrem”. Il primo spazio percorribile si rivelò a noi in quello che la madre cullandoci ci offriva e sottraeva in tempi uguali, addolcendolo con le sommesse iterazioni della ninna nanna: uno spazio modello di sicurezza, nel quale al muoversi era risparmiata ogni nostra iniziativa e l’andata si cancellava sempre di meno nel ritorno, e lo stesso suono della voce amica aiutava a comporre un divenire in economia. In questo spazio e per questo moto destorificati, che facevano da dolce ponte verso l’indistinto e la quiete conquistammo il sonno umano di tanto più problematico e bisognoso di protezione e di difesa che non il sonno delle bestie. Attraverso la madre conquistammo anche il pianto e il dolore per il suo seno desiderato o conteso o perduto, e soprattutto per la sua figura scomparsa che ci spalancava la prima solitudine cosmica, annunzio e al tempo stesso pedagogia di una lunga serie di distacchi di cui si sarebbe poi intessuta la nostra vita fino alla morte.”

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