martedì 7 dicembre 2021

Clara Gallini: Protesta e integrazione nella Roma antica

 


Protesta e integrazione nella Roma antica pubblicato nel 1970 dall’editore Laterza è stata un’invasione dell’antropologa Clara Gallini (1) nel campo della storia, seguita dal silenzio più assoluto da parte degli esperti di entrambe le discipline e dall’inevitabile oblio dei mai più ripubblicati. Eppure “quel libro pubblicato nel 1970 circolava nel movimento studentesco e, sorprendentemente, ebbe successo in America Latina.” (2) Stranamente ma, forse, neanche tanto fu Angelo Brelich, il grande studioso di storia delle religioni allievo di K. Kerenyi, a cassare il libro, probabilmente per la sua libertà nell’aprirsi “mentalmente a mondi diversi” usando un metodo comparativo giudicato, al tempo, probabilmente troppo spregiudicato. La tesi di fondo è che i movimenti di protesta nella Roma del II secolo a.C. rappresentati dai baccanali e dalle rivolte servili fossero accomunate da una stessa forma di “possessione” rituale che si esprimeva per i primi nel rapporto non mediato dei suoi membri con la divinità e per i secondi con la guida di un capo carismatico ispirato dal proprio dio personale. Un modello dal basso di “posseduto” dagli dei esprimente istanze di libertà che venivano successivamente riassorbite dall’alto nella “duplice esigenza di aggiornamento di una nuova élite di potere e assieme di integrazione ‘pacifica’ di ogni possibile nuova proposta eversiva, proveniente da settori di marginalizzazione.” (3) Un meccanismo di protesta e integrazione che vedrà il suo culmine nell’età augustea con la divinizzazione dell’imperatore, e il suo relativo culto, per poi ripercorrere un iter analogo con l’affermarsi del cristianesimo. Struttura eterna e inevitabile?

L’autrice ripercorre la storia dei baccanali, la loro apoliticità, che ai tempi significava “presentarsi come movimento religioso autonomo, perché indipendente da ogni forma di controllo diretto dello Stato” che li rendeva, di fatto, antagonisti. E le rivolte servili che conquistarono l’intera isola siciliana per più anni, fino a quella di Spartaco, la cui fama è arrivata fino ai giorni nostri (4). Se gli esiti nefasti di quelle che furono vere e proprie guerre degli schiavi sono conosciute e comunque prevedibili, l’esito finale della storia dei baccanali non può non stupirci. Nell’arco di una notte (siamo nel 186 a.C.) il senato romano emana un editto che ne ordina la repressione comminando migliaia di arresti, espropri di beni, esili ed esecuzioni capitali; il tutto senza guardare in faccia a nessuno nonostante ciò coinvolgesse ceti diversi della popolazione e non solo quella meno abbiente. La pericolosità, avvertita, che fece muovere con una fretta e decisione inusitata il potere costituito in termini che non avevano paragoni rispetto alle rivolte servili, affrontate, quest’ultime, quando ormai erano diventate minacce conclamate, era rappresentata dal fatto che i membri di questi riti orgiastici, apparentemente innocui, “riconoscevano se stessi come membri di un gruppo, e non più soltanto cittadini di una res pubblica.” (5) Schiavi, liberi, donne e uomini, vecchi e bambini, patrizi e plebei in questi rituali che accentuavano il momento festivo che concedeva loro “libertà fuori dalla norma” grazie all’alibi della possessione scardinava alle fondamenta quel “tranquillo sincretismo religioso vissuto entro le forme dell’interpretatio romana”. (6)  Se gli eserciti degli schiavi potevano essere sempre sconfitti militarmente sul campo e i danni da loro provocati riparati nel tempo, i guasti ad un sistema di potere  ben oliato come quello romano da parte di una sua componente sociale interna, se non affrontati in tempo, potevano risultare disastrosi, se non proprio irreparabili.

L’antropologa sfida la storia seminando accostamenti e analogie con realtà temporalmente e spazialmente diverse, fino ad avvicinarsi a noi, dai millenarismi ai ribelli delle società preindustriali. Protesta e integrazione della protesta, ritorna la domanda sull’inevitabilità di una modalità storica che sembra condannata alla ripetizione infinita. Per Clara Gallini, guardando al passato, “il rischio dell’integrazione della protesta appare direttamente proporzionale agli stessi limiti di una contestazione, che non è storicamente in grado di partire da una sufficiente analisi di classe”, e conclude con un’affermazione: “per l’oggi, starà a tutti noi dimostrare il contrario.” A distanza di mezzo secolo possiamo dire di averlo dimostrato?

Giuliano Spagnul

 

Nota 1: Su Clara Gallini in Bottega: http://www.labottegadelbarbieri.org/losservazione-partecipante-di-clara-gallini/

Nota 2: Intervista a Clara Gallini https://www.repubblica.it/cultura/2014/11/03/news/clara_gallini_pensiamo_che_i_miracoli_siano_arcaici_ma_li_abbiamo_inventati_noi_moderni-99626642/

Nota 3: C. Gallini, Protesta e integrazione nella Roma antica, Laterza, Bari, 1979, p. 8-9

Nota 4: Per un’esaustiva, e avvincente (il che non guasta), storia di Spartaco consiglio Aldo Schiavone, Spartaco, Einaudi, Torino, 2016

Nota 5: C. Gallini, Protesta e integrazione nella Roma antica cit. p. 57

Nota 6: ivi p. 64


mercoledì 4 agosto 2021

Clara Gallini: Protesta e integrazione nella Roma antica Recensione 1971

 


Recensione di Anna Barbera Mazzola (Uomo e cultura, 1971)

La metodologia per uno studio marxista delle società precapitalistiche, malgrado gli studi condotti in questa direzione, di cui l’ultimo è quello del Terray, ha ancora molti  punti da chiarire sia per quanto concerne le reciproche relazioni (reali e storiche) tra struttura e sovrastruttura, sia per una ridefinizione delle nozioni di ceto e strato sociale nell’ambito di società da cui è assente la nostra attuale organizzazione classista. Esiste tuttavia una chiave metodologica unificante queste diverse problematiche e quindi l’approccio a mondi degli studi etnologici tradizionali a torto considerati come talmente “diversi”, da non consentire  in essa la verifica di ipotesi  metodologiche utilizzabili per  il contesto  della nostra società  attuale. Si tratta dell’analisi delle strutture di potere, cioè il problema  di quali settori esso investa (politico, economico, sacrale, militare ecc.: settori a loro volta spesso unificabili entro un “fattore sociale totale”); quali gruppi lo detengano, quali conflitti emergano da un lato tra le diverse forme di potere e dall’altro tra potere e contro-potere; come si configurino i rapporti tra struttura e sovrastruttura (in particolare: ideologia) nell'ambito di situazioni così differenziate.

La presente opera della Gallini  propone di verificare secondo questa chiave un momento particolare della storia di Roma: il definitivo tramonto della vecchia città-stato e il primo proporsi di quella nuova dimensione, che nel giro di men di due secoli avrebbe portato Roma al suo assetto imperiale.

In questo periodo Roma inizia a porre le basi della sua struttura schiavistica; si definiscono contemporaneamente insuperabili differenze di ceto (nobilitas senatoria, élite commerciale detentrice di potere economico ma priva  di potere politico, ceti rurali in crisi, plebe urbana sulla via di una sottoproletarizzazione conseguente ai processi immigratori, masse servili, ecc. Si profilano varie forme di  tensione sociale, di cui l’A. analizza gli aspetti nelle zone più marginalizzate.

I ceti subalterni più diseredati iniziano la loro protesta proponendo nuove forme associative – i baccanali, in cui mediante l’estasi e la “possessione” si tenta di evadere dalla realtà e di ascendere in qualche modo a livelli più alti di dignità. Siamo nel 186: mezzo secolo più tardi, le rivolte servili – organizzate sotto la guida di un leader carismatico in diretto contatto con gli dei . minacceranno seriamente l’assetto istituzionale della Repubblica. In entrambi i casi, la protesta sociale assume forme antitetiche a quelle istituzionalizzate dallo stato attraverso i sacerdoti e le magistrature. In particolare, si mette in causa quel legame organico tra famiglia e stato, il cui filo rosso era costituito dai principi di autorità e di rappresentatività. Baccanali e rivolte servili furono brutalmente repressi dall’oligarchia di potere (capp. I, II, e par. 2 del cap. IV).

Il gruppo detentore del potere politico-religioso fu però in grado di elaborare una propria ideologia del potere, che aveva una duplice funzionalità: venne a connettersi in modo sempre più preciso e articolato alle trasformazioni del potere politico, destinato nel breve giro di un secolo, a tramutarsi in potere politico personale; seppe rispondere con funzione integrante alle diverse proposte eversive e liberalizzanti, che provenivano dal basso. È il sorgere della ideologia del capo politico carismatico che abbiamo già visto profilarsi nell’ambito dei ceti subalterni, fonte autonoma di potere politico e religioso, che servirà da centro di riferimento per il nuovo assetto sociale dell’impero.

Si delineano, a questo punto, due linee di ricerca: la prima, più propriamente storica, relativa alle fasi del processo di definizione dei carismi del capo politico (cap. III e IV); la seconda, di analisi più propriamente socio-antropologica, che si propone di identificare i precisi nessi tra i diversi istituti sociali (famiglia, clientelato,  schiavitù, ecc.) e i valori proposti nei loro confronti dal princeps (autorictas, pietas, protezione concessa dal pater patriae, ecc.), il quale si afferma come unico insostituibile modello di integrazione di tutto l’assetto sociale (cap. V).

Tesi interessante e suggestiva dell’A. è che l’integrazione delle eventuali forme di protesta è un rischio costantemente corso dalla dinamica delle società ad economia precapitalistica, nella misura in cui è storicamente assente da esse una netta struttura in classi e quindi la possibilità di una chiara coscienza di classe.

“Al limite, vedremo perfino una contestazione globale costruirsi da sé, con le sue mani, gli strumenti della propria integrazione, nella misura in cui, proponendo un modello utopistico di capovolgimento totale del sistema, suggerirà al princeps di presentarsi come il padre della novella età dell’oro” (p. 9).

L’analisi di questo fenomeno che è forse da assumere come invariante del processo storico è l’argomento dell’ultimo capitolo dell’opera della Gallini.

Siamo di fronte, com’è facilmente intuibile, a un libro a tesi, che appare scritto sotto l’immediata sollecitudine di venti a noi molto vicini nel tempo, e cui anche l’A. fa consapevolmente riferimento nell’Introduzione. In questa prospettiva, si tenta di tirare le fila di molti discorsi sinora presentati settorialmente dai singoli specialisti di varie discipline: storici delle religioni, economisti, storiografi. Si tenta soprattutto di compiere il notevole sforzo metodologico di un’analisi di quei rapporti di potere, che sinora è stata portata avanti solo da sociologi e antropologi a proposito di società contemporanee ed è tutta da verificare nel contesto delle società antiche.

Potranno essere non sufficientemente precisati aspetti marginali del fenomeno considerato, si potrà dissentire sulla tesi fondamentale del lavoro. Ma, al di là di tutto ciò, ci sembra importante segnalare la stimolante provocazione per il lettore specializzato e l’invito implicito a riconsiderare un modo diverso una realtà data quasi per scontata, che dell’opera della Gallini costituiscono l’esito più considerevole. È anche da segnalare lo sforzo di costruzione di un linguaggio anti-accademico che, a sua volta, potrà stimolare anche i “non addetti ai lavori”, invitandoli a riflettere non soltanto sull’ieri, ma anche sull’oggi.

(Il libro a cinquant'anni di distanza non ha avuto nessuna nuova edizione: una recensione con la speranza che possa essere ristampato QUI )