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Apocalissi culturali: tavola n.11 |
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da "La fine del mondo" di Ernesto De Martino |
INTERSEZIONI:
Judith
Butler, Critica della violenza etica
“prima ancora di acquisire un ‘io’, io sono un essere che
è stato toccato, spostato, nutrito, cambiato, messo a dormire, costituito come
oggetto e soggetto di parole. Il mio corpo infantile, appena nato, non è stato
solo toccato, spostato e sistemato, ma queste intrusioni hanno operato come
‘segni tattili’ che si sono depositati nella mia formazione. E tali segni mi comunicano
in modi che non sono riducibili alla verbalizzazione. Sono segni di un altro (o
meglio di un’altra), ma sono anche tracce da cui un ‘io’ eventualmente
emergerà, un ‘io’ che non sarà mai in grado di ri(s)coprire o rileggere
pienamente questi segni, e per il quale questi segni resteranno in parte
qualcosa di opprimente e di illeggibile, di enigmatico e formativo.”
Ernesto De Martino, La fine del mondo:
“La nostra esperienza cosmogonica ebbe inizio attraverso
il calore del corpo materno, quando cominciò oscuramente a delinearsi secondo
il confine della pelle, l’orizzonte di una patria. Nello sfondo affettivo di
quel calore diffuso conquistammo la nostra bocca succhiando il latte, e come
bocca emergemmo nell’ingordo piacere della nutrizione. Sotto la carezza della
mano materna si venne descrivendo e precisando la superficie del nostro corpo,
così come per l’immagine del volto materno conquistammo l’umanità del vedere,
del riconoscere, del sorridere: “incipe, parve puer, risu cognioscere matrem”.
Il primo spazio percorribile si rivelò a noi in quello che la madre cullandoci
ci offriva e sottraeva in tempi uguali, addolcendolo con le sommesse iterazioni
della ninna nanna: uno spazio modello di sicurezza, nel quale al muoversi era
risparmiata ogni nostra iniziativa e l’andata si cancellava sempre di meno nel
ritorno, e lo stesso suono della voce amica aiutava a comporre un divenire in
economia. In questo spazio e per questo moto destorificati, che facevano da
dolce ponte verso l’indistinto e la quiete conquistammo il sonno umano di tanto
più problematico e bisognoso di protezione e di difesa che non il sonno delle
bestie. Attraverso la madre conquistammo anche il pianto e il dolore per il suo
seno desiderato o conteso o perduto, e soprattutto per la sua figura scomparsa
che ci spalancava la prima solitudine cosmica, annunzio e al tempo stesso
pedagogia di una lunga serie di distacchi di cui si sarebbe poi intessuta la
nostra vita fino alla morte.”