Clara Zanardi, Sul filo della presenza, Milano Edizioni Unicopli 2011
“Sul filo della presenza” è titolo bellissimo per
un’opera che vuole affrontare quel legame sottile che intercorre tra il De
Martino antropologo e il De Martino filosofo. L’autrice Clara Zanardi, laureata
in filosofia all’Università di Venezia – Ca’ Foscari, che alla data della
pubblicazione del libro, 2011, poteva vantare la solida età di anni 23, indaga
l’attualità dell’opera demartiniana affrontando in particolare l’opera
incompiuta, pubblicata postuma nel 1977 col titolo “La fine del mondo”1 a cui si è aggiunto nel 2005 un altro volume
di scritti 2 a carattere più espressamente filosofico. E’ un piccolo
libro di 130 pagine, denso ed estremamente centrato sul pensiero demartiniano
con un approccio severo e meticoloso capace di riconoscere l’originalità di una
filosofia in prima istanza tale, non cioè come sussidiario prodotto di una
ricerca antropologica, che fa di Ernesto De Martino “una delle figure
intellettuali più significative dell’Italia del xx secolo.”3 Presenza,
crisi della presenza, risoluzione della crisi, le tre sezioni in cui si
suddivide l’opera. Non è nelle mie intenzioni e trascenderebbe comunque le mie
capacità elaborare una critica sistematica. E’ uno studio chiaro nella sua
esposizione che se si presta a una doverosa rilettura è solo per la sua
intrinseca ricchezza. Mi permetto unicamente di evidenziare un paio di punti
tra quelli che più mi hanno colpito. Il primo sulla libertà, un concetto a cui
oggi siamo abituati a pensare in termini astratti e universalistici. Sembra
facile pensare all’idea di libertà; con un po’ di buon senso a buon mercato
concediamo che i suoi limiti sorgano dove si delinea la libertà degli altri, ma
superati questi la sua luce splende nella sua integrità assoluta, indiscussa
nel regno dove tutto è possibile. E’ quindi difficile accettare la visione
demartiniana che vede la decisione dell’individuo di inserirsi nel contesto
sociale, comunitario non come “un esperire la libertà come pura possibilità, ma
come scelta di una fedeltà particolare al già deciso da altri, e come
continuazione del loro decidere nella nuova irripetibile situazione singola”4
“La tendenza solipsistica fatta propria dalla filosofia occidentale”
prosegue Clara Zanardi dopo la citazione da De Martino “la tentazione a cui è
soggetta di definirsi elitariamente e di considerare l’isolamento sinonimo di
profondità e di riflessione ed autenticità, ha origini remote. Sotto il
pungolo, l’importanza ed il valore della sfera pubblica sfumano
nell’insignificante del cicaleccio quotidiano (…) Per De Martino, invece, la
società va riscattata dal momento che è lì che si gioca interamente la vita
umana, dall’inizio alla fine, in ogni suo minimo aspetto.” E la libertà? Che ne
è del nostro sogno millenario sulla nostra singola libertà di essere ciò che
pensiamo di aver diritto di essere, “l’individuo in sé è dunque un ‘nulla’”5
? Che libertà c’è se siamo solo un noi e non un io? Il secondo punto che
volevo evidenziare credo possa rispondere a queste domande. Il problema
dell’essenza dell’individuo, su come sia preferibile concepire il nostro
essere, come vogliamo vederci, pensarci. “La preferenza per una concezione
dinamica dell’essere, che sostituisce ad un’irraggiungibile trascendenza un
trascendimento storico che impone un incessante sforzo esistenziale, consente
l’inserimento tra l’essere e il dover-essere di uno spazio libero. Se tale
intercapedine costituisce di certo un fattore di incertezza per l’uomo,
rappresenta però anche un fondamento terreno affinché egli eserciti la propria
intenzionalità e si crei nuove opportunità, decidendo in prima persona il
proprio destino senza che esso sia già scolpito da millenni in rocce
metafisiche.”6 Lì in quello “spazio libero”, spazio non
interstiziale, surrettizio, ma “intercapedine” necessario allo sviluppo della
libertà vera, indefinita, indefinibile, mai decisa una volta per tutte, essa
può manifestarsi nella sua realtà. Una libertà che ha volto, carattere, istanze
decise e costruite dalle pratiche di esseri umani che per il loro interagire,
relazionarsi, confliggere possono realmente dirsi e sentirsi liberi. Liberi di
opporsi a quella società di formiche a cui Lévi Strauss profetizzava l’umanità
fosse inevitabilmente condannata; triste profezia a cui Ernesto De Martino ha
pensato bene di “contrapporre la opposta e complementare profezia racchiusa in
un passo delle Memorie del sottosuolo di Dostoevskij” in cui nell’estrema
congiura di un uomo ridotto ad essere un puro tasto di pianoforte “in questo
caso l’uomo diventerà pazzo, apposta per essere privo di ragione e tener
duro!... Ecco, le formiche hanno tutt’altro gusto. Esse hanno un solo e
meraviglioso edificio dello stesso genere, inalterabile in eterno: il formicaio.”7
“In conclusione” ci avverte infine Clara Zanardi che il
pensiero di De Martino “sembra non riuscire mai a trovare conforto in una
totalità sistematica, ma si contorce tra molteplici influenze e continue
revisioni, in un’irrequietezza che guarda con diffidenza alle compite
costruzioni idealistiche, ma che ancora non giunge ad una propria solida
tematizzazione coerente”8 e grazie a ciò, ci sentiamo di aggiungere,
uno dei maggiori pensatori del xx secolo può
traghettare nel secolo successivo, il nostro, per aiutarci a far passare
la crisi senza rischiare di passare anche noi con questa.
1 Ernesto
De Martino, La fine del mondo, Torino
Einaudi 1977. Nuova edizione Einaudi 2002
2 Ernesto
De Martino, Scritti filosofici,
Napoli Società Editrice Il Mulino 2005
3 Clara Zanardi, Sul filo della presenza, Milano
Edizioni Unicopli 2011 pag. 9
4 ibidem pag. 41
5 ibidem pag. 42
6 ibidem pag. 131
7 Ernesto De Martino, La fine del mondo, Torino Einaudi 1977
pag. 690
8 Clara Zanardi, op. cit. pag.
134
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