lunedì 16 marzo 2015

Clara Zanardi, Sul filo della presenza


















Clara Zanardi, Sul filo della presenza, Milano Edizioni Unicopli 2011



“Sul filo della presenza” è titolo bellissimo per un’opera che vuole affrontare quel legame sottile che intercorre tra il De Martino antropologo e il De Martino filosofo. L’autrice Clara Zanardi, laureata in filosofia all’Università di Venezia – Ca’ Foscari, che alla data della pubblicazione del libro, 2011, poteva vantare la solida età di anni 23, indaga l’attualità dell’opera demartiniana affrontando in particolare l’opera incompiuta, pubblicata postuma nel 1977 col titolo “La fine del mondo”1  a cui si è aggiunto nel 2005 un altro volume di scritti 2 a carattere più espressamente filosofico. E’ un piccolo libro di 130 pagine, denso ed estremamente centrato sul pensiero demartiniano con un approccio severo e meticoloso capace di riconoscere l’originalità di una filosofia in prima istanza tale, non cioè come sussidiario prodotto di una ricerca antropologica, che fa di Ernesto De Martino “una delle figure intellettuali più significative dell’Italia del xx secolo.”3 Presenza, crisi della presenza, risoluzione della crisi, le tre sezioni in cui si suddivide l’opera. Non è nelle mie intenzioni e trascenderebbe comunque le mie capacità elaborare una critica sistematica. E’ uno studio chiaro nella sua esposizione che se si presta a una doverosa rilettura è solo per la sua intrinseca ricchezza. Mi permetto unicamente di evidenziare un paio di punti tra quelli che più mi hanno colpito. Il primo sulla libertà, un concetto a cui oggi siamo abituati a pensare in termini astratti e universalistici. Sembra facile pensare all’idea di libertà; con un po’ di buon senso a buon mercato concediamo che i suoi limiti sorgano dove si delinea la libertà degli altri, ma superati questi la sua luce splende nella sua integrità assoluta, indiscussa nel regno dove tutto è possibile. E’ quindi difficile accettare la visione demartiniana che vede la decisione dell’individuo di inserirsi nel contesto sociale, comunitario non come “un esperire la libertà come pura possibilità, ma come scelta di una fedeltà particolare al già deciso da altri, e come continuazione del loro decidere nella nuova irripetibile situazione singola”4 “La tendenza solipsistica fatta propria dalla filosofia occidentale” prosegue Clara Zanardi dopo la citazione da De Martino “la tentazione a cui è soggetta di definirsi elitariamente e di considerare l’isolamento sinonimo di profondità e di riflessione ed autenticità, ha origini remote. Sotto il pungolo, l’importanza ed il valore della sfera pubblica sfumano nell’insignificante del cicaleccio quotidiano (…) Per De Martino, invece, la società va riscattata dal momento che è lì che si gioca interamente la vita umana, dall’inizio alla fine, in ogni suo minimo aspetto.” E la libertà? Che ne è del nostro sogno millenario sulla nostra singola libertà di essere ciò che pensiamo di aver diritto di essere, “l’individuo in sé è dunque un ‘nulla’”5 ? Che libertà c’è se siamo solo un noi e non un io? Il secondo punto che volevo evidenziare credo possa rispondere a queste domande. Il problema dell’essenza dell’individuo, su come sia preferibile concepire il nostro essere, come vogliamo vederci, pensarci. “La preferenza per una concezione dinamica dell’essere, che sostituisce ad un’irraggiungibile trascendenza un trascendimento storico che impone un incessante sforzo esistenziale, consente l’inserimento tra l’essere e il dover-essere di uno spazio libero. Se tale intercapedine costituisce di certo un fattore di incertezza per l’uomo, rappresenta però anche un fondamento terreno affinché egli eserciti la propria intenzionalità e si crei nuove opportunità, decidendo in prima persona il proprio destino senza che esso sia già scolpito da millenni in rocce metafisiche.”6 Lì in quello “spazio libero”, spazio non interstiziale, surrettizio, ma “intercapedine” necessario allo sviluppo della libertà vera, indefinita, indefinibile, mai decisa una volta per tutte, essa può manifestarsi nella sua realtà. Una libertà che ha volto, carattere, istanze decise e costruite dalle pratiche di esseri umani che per il loro interagire, relazionarsi, confliggere possono realmente dirsi e sentirsi liberi. Liberi di opporsi a quella società di formiche a cui Lévi Strauss profetizzava l’umanità fosse inevitabilmente condannata; triste profezia a cui Ernesto De Martino ha pensato bene di “contrapporre la opposta e complementare profezia racchiusa in un passo delle Memorie del sottosuolo di Dostoevskij” in cui nell’estrema congiura di un uomo ridotto ad essere un puro tasto di pianoforte “in questo caso l’uomo diventerà pazzo, apposta per essere privo di ragione e tener duro!... Ecco, le formiche hanno tutt’altro gusto. Esse hanno un solo e meraviglioso edificio dello stesso genere, inalterabile in eterno: il formicaio.”7    

“In conclusione” ci avverte infine Clara Zanardi che il pensiero di De Martino “sembra non riuscire mai a trovare conforto in una totalità sistematica, ma si contorce tra molteplici influenze e continue revisioni, in un’irrequietezza che guarda con diffidenza alle compite costruzioni idealistiche, ma che ancora non giunge ad una propria solida tematizzazione coerente”8 e grazie a ciò, ci sentiamo di aggiungere, uno dei maggiori pensatori del xx secolo può  traghettare nel secolo successivo, il nostro, per aiutarci a far passare la crisi senza rischiare di passare anche noi con questa.

1 Ernesto De Martino, La fine del mondo, Torino Einaudi 1977. Nuova edizione Einaudi 2002
2 Ernesto De Martino, Scritti filosofici, Napoli Società Editrice Il Mulino 2005
3 Clara Zanardi, Sul filo della presenza, Milano Edizioni Unicopli 2011 pag. 9
4 ibidem pag. 41
5 ibidem pag. 42
6 ibidem pag. 131
7 Ernesto De Martino, La fine del mondo, Torino Einaudi 1977 pag. 690

8 Clara Zanardi, op. cit. pag. 134

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