Ernesto
De Martino, Carlo Levi, Rocco Scotellaro. Cosa accomuna queste figure, qual è
il fil rouge che lega persone e pensieri così diversi? Credo che la
risposta non sia semplicemente da ricercarsi nella condivisione di una stessa
sfera di interessi (lo studio o la narrazione della cultura contadina del Sud
Italia), quanto piuttosto nella tensione politica e umana che li condusse a
scavare nei territori fino ad allora pressoché inesplorati della marginalità.
Il
fascino e l'interesse che tali autori mantengono inalterati, quando non
accresciuti, al giorno d'oggi paiono infatti intrinsecamente legati al loro
impegno militante, alla loro assoluta prossimità rispetto al tema trattato. Una
prossimità in cui certo permangono forti elementi di contraddizione e di
alterità, ma che in ogni caso contraddistingue in maniera unica e peculiare la
classe intellettuale di quegli anni. Una figura di intellettuale cioè come
colui che non solo possiede un quadro teoretico coerente e lucido, un ricco
bagaglio di riferimenti e concetti, ma anche come colui che mette nella ricerca
la sua stessa carne, il suo corpo, e che trova le forme più taglienti e
profonde, siano esse parole, linee, immagini, per esprimersi ed essere
compreso. Pasolini che si aggira per ore nelle periferie romane, che siede,
parla, beve e ride con quel popolo infinitamente distante dalla sua
aristocraticità, ci appare oggi lontano anni luce dal nostro accademico da
concorso, chiuso nella torre d'avorio della propria università, o dal
gladiatore da talkshow, impregnato di vuota retorica qualunquista.
In un
mondo com'è il nostro, caratterizzato da una complessità crescente e da una
sostanziale dispersione del senso, fatichiamo sempre più a leggere il reale, a
orientarci tra frammenti sconnessi e discordanti di racconto che mai paiono
trovare il conforto di una qualche sintesi credibile. In un mondo in cui ogni
voce può avere spazio, ma solo quello di un clic, ci ritroviamo
paradossalmente privi di narrazioni laiche e razionali, con l'esito
sconfortante di vedere il fanatismo – di qualsiasi colore esso sia -
riconquistare quel potere che solo con grandi sforzi eravamo riusciti nel tempo
a sottrargli. Il venire meno di una classe intellettuale capace di svolgere un
ruolo effettivo nella plasmazione culturale della popolazione è uno degli
elementi chiave per comprendere il disorientamento attuale ed è all'interno di
questo quadro che lo studio e la riscoperta di figure del calibro di De
Martino, Levi e Scotellaro acquista la sua importanza e, direi, la sua urgenza.
Il focus
del mio intervento sarà sul metodo adottato da uno di questi autori, Ernesto De
Martino, per entrare in relazione profonda con la cultura studiata e per
raccontare tale incontro in tutta la sua complessità e contraddittorietà, nella
convinzione che, essendo il metodo per definizione riproducibile, esso possa
con gli opportuni accorgimenti contribuire ad arricchire e stimolare le
prospettive culturali odierne molto più di un encomio od elogio del singolo
autore. Molte sono infatti le marginalità che ancora oggi sussistono, o si
generano, e ampia risulta tuttora la nostra insufficienza ad approssimarci ad
esse in maniera reale e a mettere in discussione i loro confini definitori ed
identitari, ed i nostri con i loro.
La via
che Ernesto De Martino sceglie per cogliere la realtà contadina del Mezzogiorno
è l'etnografia, una grafia che si innesta sul pensiero gramsciano
secondo cui tra la cultura egemonica e il mondo popolare subalterno non vi è
una rigida contrapposizione dicotomica, ma, come fa notare Giovanni Pizza,
"una complessa dialettica in continuo divenire
in cui le forze disperse lottano per ricomporsi attraverso iniziative di
volontà collettiva volte al mutamento dei rapporti di forza vigenti e alla
fabbricazione di un senso comune nuovo, fondato su un progresso intellettuale
critico di massa".1 Lo scarto creato dall'abbandono di
un'ottica meramente contrappositiva (del tipo noi / gli altri) e dall'apertura
verso una visione dialettica delle differenze culturali e di classe consente a
De Martino di superare un altrimenti inconciliabile dualismo tra il suo status
di intellettuale borghese e la condizione di miseria ed analfabetismo di quelle
che lui chiama le "plebi rustiche" del Sud, e costituisce quindi la
condizione di possibilità preliminare delle sue ricerche etnografiche.
Ma su quale terreno è possibile un'incontro tra due mondi
così differenti? L'elemento che media tra i due poli e consente l'avviarsi
dinamico di un processo dialettico in cui la distanza abissale tra
intellettuali e popolo può trasformarsi in prossimità e originare una realtà
altra, di sintesi, è inequivocabilmente per De Martino l'impegno politico, la
lotta sul terreno, fianco e fianco, capace di modificare effettivamente i
rapporti di forza su cui si struttura la società italiana del dopoguerra.
De Martino avverte infatti intensamente, con un misto di
colpa e dolorosa rabbia, la distanza tra sé, i membri della sua equipe e i suoi
"oggetti" di studio, e tutte le Note di viaggio della sua
discesa lucana si dispiegano come documento vivo di una umanità che cerca
drammaticamente un'altra umanità.2 E' utile qui riportare ancora
una volta le sue vibranti impressioni in occasione dell'incontro con i
contadini lucani, poiché costituiscono una preziosa testimonianza della
difficoltà e del coacervo di contraddizioni che inevitabilmente uno scarto di
questa portata genera e dell'intensità autentica con cui esso rimette in
movimento le categorie endogene dell'antropologo, non solo a livello del
pensiero, ma dell'intera sua forma di vita.
Occorre soprattutto trovare la via del semplice rapporto
umano, e inserirsi nel punto esatto in cui è possibile essere con loro nella
stessa storia. Quando si riascoltano, in genere predomina lo stupore divertito.
Bisognerebbe far comprendere loro che tale loro stupore rappresenta la prima
reazione al fatto che due storie per lungo tempo diverse e indipendenti
compiono i primi tentativi per diventare una sola comune umana storia. È
difficile, e comporta tutta una serie di brucianti umiliazioni, riprendere il
colloquio fra due umanità che lo hanno da tempo interrotto. Mi umilia dover
abbassare uomini a me contemporanei a oggetti di ricerca, quasi di esperimento.
[...] E non posso evitare il pensiero che solo una società
sciagurata può averci ridotto a tanto, Rosa e io, da incontrarci come se
fossimo abitanti di diversi pianeti.3
Sono parole in cui coesistono il dolore per la distanza
oggettiva tra il mondo di appartenenza e il mondo di ricerca e la ferma
convinzione/speranza che tale distanza sarà superata da un comune processo di
emancipazione e liberazione. Una coesistenza non sempre pacifica che struttura
l'intero pensiero demartiniano, alla continua ricerca di una conciliazione
possibile tra interesse scientifico ed impegno etico-politico.
Perché è un fatto così straordinario, così fuori da ogni
ragionevolezza, che della gente si sia mossa da Roma per incidere Fronda di
Ulivo o gli scongiuri sull'ingorgo mammario o le storie dei monacelli e delle
spiritate, da suscitare come prima reazione lo stupore e il riso. "Ma
queste sono fesserie nostre!" mi ha detto una volta una contadina di
Grottole. "Noi vogliamo mangiare, non cantare!" mi ha gridato
brutalmente il bracciante Luigi Dragonetto di Irsina, ma poi mi ha cantato dei
versi e siamo diventati amici. La pratica di dissimulare la parte più intima di
sé davanti al signore e all'intellettuale, il complesso di inferiorità davanti
alla cultura ufficiale sono ostacoli gravi per il nostro lavoro. Perciò abbiamo
ottenuto i risultati migliori quando ci siamo riconosciuti tutti come
compartecipi di una comune speranza di emancipazione reale.4
L'etnologia è dunque per De Martino ben lontana da
un'astratta passione per l'esotico: essa è anzi la premessa irrinunciabile ad
una comune lotta politica e come tale deve potersi emancipare dall'orizzonte
borghese degli intellettuali che la determinano e provare a guardare alla
dialettica egemonica per una volta "dal punto di vista del
bracciante", dell'escluso, del povero. Dal momento che la conoscenza va
situata in contesti storici reali e la teoria costruita a partire da una
ricerca vivente e condivisa, l'intellettuale scende sul campo. Il movimento che
egli intraprende con le sue "spedizioni" acquista così una innovativa
reciprocità: se l'intellettuale borghese di Roma si allontana dal suo centro
culturale e di classe per andare verso un luogo che, nonostante i soli 400 km , pare realmente un
altro mondo per studiarne le peculiarità caratteristiche, egli lo fa tuttavia
con l'intento di ricomprendere tale marginalità all'interno della propria
stessa storia. La sua analisi non circoscrive dunque la realtà studiata, ma
anzi lavora criticamente a mettere in discussione quelle frontiere archetipe
che ne hanno sancito la marginalità, re-includendola all'interno di un'unica
narrazione, quella della coscienza storiografica dell'Occidente nel suo lungo
percorso di emancipazione dall'irrazionalità e dalla sottomissione. Egli si
allontana cioè per riavvicinare, in tutta la sofferta paradossalità che un tale
tentativo implica e che De Martino avverte con estrema acutezza.
Un movimento che, ancor prima delle proprie conclusioni
scientifiche, è già in sé una forma critica di conoscenza, poiché è già in sé epochè
epistemologica delle proprie categorie di analisi e comprensione della
realtà sociale, è già in sé dialettica non ancora composta delle differenti
appartenenze culturali. Si tratta quindi in primis di un viaggio nella propria
coscienza, nella stoiricità intrinseca con cui individuiamo le culture e le
loro pratiche, con cui ne delimitiamo i confini. Non è casuale che tale viaggio
demartiniano termini con una riflessione incompiuta sul tema dell'apocalisse,
un'apocalisse che investe in particolare il mondo borghese, il suo esasperato
individualismo, la sua tendenza egemonica che, imprigionata nella sterile
opposizione con il mondo subalterno, impedisce la costruzione di una cultura
laica comune, di un umanesimo autenticamente integrale che è il vero traguardo
ideale della speculazione demartiniana, la sua - forse impossibile? - sintesi
finale.
Ma che cos'è questa marginalità che De Martino sceglie di
eleggere a tema della propria riflessione? Per comprendere l'importanza
dell'operazione demartiniana e la innovatività della sua proposta è
indispensabile soffermarsi su tale immagine-concetto. Come fa notare David
Forgacs in Margini d'Italia, l'esclusione sociale dall'Unità ad oggi,5
infatti, i margini non sono dati naturali, ma prodotti di determinati modi di
vedere e di organizzare lo spazio sociale, di una serie di relazioni spaziali e
di potere. Si tratta quindi di prodotti discorsivi, e non dei modi in cui si
riproduce nella lingua una realtà oggettiva preesistente. Non sono regioni o
culture che sono diventati marginali, ma esse hanno cominciato ad essere viste
come marginali e proprio l'instabilità, fluidità ed estrema versatilità
dell'uso del termine ne hanno segnato il successo nelle scienze sociali, la
possibilità di applicarlo a ogni realtà. Le persone marginali sono quindi
normalmente definite non in positivo, per ciò che esse fanno o costruiscono, ma
in negativo per ciò che ad esse manca rispetto ad un dato standard.
L'identificazione di un margine comporta infatti sempre il posizionamento di
quel luogo in relazione ad un altro luogo visto come centrale: il binarismo
io/l'altro si riproduce così nella collocazione spaziale centro/periferia.
Riconoscere una realtà come marginale significa quindi porla a distanza da sé
e, d'altra parte, riconoscersi come marginali significa aver interiorizzato e
fatto proprio il linguaggio dominante e le sue categorie, un meccanismo che
appare con chiarezza nella vergognosa ritrosia con cui i contadini lucani si
rapportano inizialmente all'antropologo napoletano.
Il valore della ricerca demartiniana e l'intensità della
sua tensione politica si avvertono con maggiore forza esattamente nella loro
radicale e ultima messa in crisi del meccanismo binario della marginalità. Le
culture contadine del Sud non vengono più intese come residui arcaici, tagliati
fuori senza appello dal tempo e dalla storia, immobili nelle proprie ataviche
consuetudini, ma come realtà a loro modo dinamiche, a noi contemporanee in
quanto in costante relazione dialettica con le forme culturali egemoniche che
strutturano anche il nostro mondo storico. Da qui il tentativo di reintegrare la
magia lucana nella società meridionale di cui fa parte, e quindi in quel mondo
moderno in cui a sua volta è inserita la società meridionale. Un processo di
progressive re-inclusioni subentra così ad una tendenza dominante ad esclusioni
concentriche, ottenendo al posto di una visione statica di residui fossili
sopravviventi una vera e propria dinamica culturale. Il Sud non è quindi
un'isoletta sperduta nell'oceano, a immensa distanza dal continente, ma un
mondo in cui anche ciò che agli occhi moderni sembra più retrivo, le
sopravvivenze magiche lucane, in realtà vive e assolve ad una sua propria
funzione, risponde a problemi contemporanei e intesse una relazione sincretica
più o meno conflittuale con le forme egemoniche di vita culturale, a cominciare
dal cattolicesimo.6
Nella risposta che nel 1952 De Martino dà all'appello di
Zavattini agli intellettuali italiani sulle colonne de Il Rinnovamento
d'Italia questa originale rilettura della marginalità meridionale emerge
con chiarezza. Scrive De Martino: "[...] il punto fondamentale, che
cela un equivoco al quale non è facile sottrarsi, sta tutto in quella parola
"ignorante" che, una volta pronunziata, taglia con un colpo netto
ogni rapporto umano tra intellettuale e popolo. [...] Questi contadini non mi
ponevano solo domande, e in ogni caso la loro vita culturale non si esauriva
nel domandare. La società li aveva lasciati nella miseria, aveva negato loro i
due potenti mezzi tecnici della cultura, il saper leggere e scrivere, ma essi
come persone intere, non si erano mai rassegnati a recitare nel mondo la parte
degli incolti, e sotto la spinta dei momenti critici dell'esistenza avevano
costruito un sistema di risposte, cioè una vita culturale, formando così, di
fronte alla tradizione scritta della cultura egemonica, la tradizione orale del
loro sapere. La cultura egemonica aveva cercato di raggiungerli e di
padroneggiarli attraverso il cattolicesimo popolare: ma essi avevano costretto
lo stesso cattolicesimo e la stessa potenza della chiesa a compromessi con
loro, e assai spesso a lasciar correre e a lasciar passare."7
Dopo aver condotto un esame critico del proprio
posizionamento storico-culturale e delle proprie categorie ermeneutiche, ciò
che l'intellettuale può fare per difendere il diritto dei popoli subalterni ad
"essere persone intere", è allora cercare la forma più adeguata per
"dare loro voce".8 In questo punto egli va però
incontro ad una aporia insanabile, la mancanza della cui individuazione
costituisce forse la lacuna più profonda della ricerca sul campo di De Martino
nel Mezzogiorno. Per quanto critico ed autoriflessivo, infatti, il processo di
descrizione etnografica incorpora inevitabilmente una relazione di potere. Chi
punta l'obiettivo della macchina fotografica? Chi guarda poi la fotografia o
legge i libri? Chi si spinge fuori, sul campo, e per chi rendiconta? Colui che
osserva dal centro della società possiede mezzi, conoscenze e tecnologia
potenti per descrivere, definire, selezionare, nonché ha accesso ai canali di
distribuzione; tutte caratteristiche da cui sono escluse le popolazioni
studiate.
Lo stesso proposito di parlare per l'altro, di "dargli
voce", appare alquanto insidioso, in un duplice senso. In primo luogo il
rischio è che l'atto stesso di denunciare le condizioni di queste persone e la
convinzione di poterli così avvicinare al centro possano servire da palliativo
o da catarsi, sia per chi denuncia che per il pubblico finale, e questo può
impedire loro di identificare le vere cause di tale condizione (disuguaglianza
economica, leggi, politiche, pregiudizi...). I marginali vengono allora visti
con paternalismo (come accade nel pensiero cattolico) o con solidarietà (tra
compagni di una visione politica emancipatoria), ma solo di rado sono resi essi
stessi i soggetti attivi o i protagonisti di una lotta per cambiare, dal
momento che tale lotta potrebbe non solo sconvolgere la loro condizione
marginale, ma anche mettere in questione il ruolo di quelli che sostengono la
loro causa e la loro posizione centrale. Si finisce dunque per essere
involontariamente complici delle strutture di potere che si analizzano e pur si
criticano. In secondo luogo, l'atto stesso di dare voce significa riaffermare
la propria esclusiva possibilità di condurre la narrazione, mantenendo l'altro
in una condizione di subalternità e passiva dipendenza dalla parola egemone.
Anziché promuovere forme di auto-emancipazione dell'altro, ci si ripropone
quindi implicitamente come mediazione necessaria per accedere alla dimensione
del pubblico, del politico, del culturale.
Ai contadini del Sud è negato esattamente questo, la
possibilità e la capacità di narrarsi da sè, di prendere la parola e di farlo
in un modo che possa colmare finalmente l'abisso tra la loro miseria tramandata
per via orale e la scrittura in cui la cultura egemone si incarna. Quella
scrittura che, come rileva De Martino, per essi costituisce un complesso di
segni ignoti o mal noti da cui risulta che bisogna pagare certe tasse, partire
per certe guerre, scontare tanti anni di galera; quella scrittura che può
addirittura diventare un momento critico dell'esistenza, come la tempesta o la
malaria, mentre i caratteri dell'alfabeto, il periodo scritto, possono
tramutarsi in potenze oscure, maligne, e quindi anche magicamente utilizzabili.
E così contro il malocchio vale un giornale sotto il cuscino, perché il
fascino, magicamente ammaliato dai caratteri a stampa, è costretto a leggerli
ad uno ad uno, probabilmente con la stessa penosa fatica dei semianalfabeti, e
intanto, mentre va così sillabando e imbrogliandosi nella lettura, passa la
notte, e con essa il tempo propizio per operare.9
De Martino si rende perfettamente conto che la sua forma di
espressione e quella delle popolazioni cui è solidaristicamente ed
empaticamente vicino sono e rimangono inconciliabili, sa che nessuno dei suoi
oggetti di studio potrebbe essere in grado di capire i suoi testi, i risultati
delle sue ricerche che pur parlano di loro. Illuminante è la risposta che gli
abitanti di Albano di Lucania nel '78 danno alle domande sul giudizio e sul
ricordo che essi avevano sull'antropologo che anni prima aveva visitato il loro
villaggio: "ciò che ha scritto corrisponde al 50% alla verità, l'altro
50% se l'é inventato. Non ha detto tutto, anzi ha detto tutto, ma ha aggiunto
qualcosa di sua immaginazione. No, non c'era risentimento per i suoi libri, ma
quella specie di riservatezza che hanno tutti i meridionali di non essere
rimproverati di ignoranza. Quelli credevano nella magiare, nelle fatture...".
Il succo che quelle persone avevano estratto dai testi
demartiniani era un vago sentore di ignoranza; la loro introiettata
subalternità aveva trovato una sostanziale conferma nell'incapacità di
comprendere il ragionamento demartiniano, vissuto come testimonianza
inappellabile della loro arretratezza e ignoranza, nonché nel bisogno spontaneo
e immediato di smarcarsi da quella rappresentazione, presentandola come
superata, come ormai passata. Proprio quell'ignoranza che per De Martino
tagliava con un colpo netto ogni rapporto umano tra intellettuale e popolo
torna come un'accusa sulla elaborazione postuma che il popolo ha del suo
sguardo di intellettuale borghese. In questa testimonianza emerge nitidamente
il divario incolmabile tra i due mondi: come può l'intellettuale pretendere di
dare voce al popolo, se quest'ultimo non solo non si riconosce nelle sue parole,
ma se ne sente umiliato e frustrato? Se per De Martino il fulcro della storia
rimane l'autocoscienza storica dei singoli e dei popoli posti ai margini,
condizione necessaria di possibilità della loro emancipazione reale e della
loro piena articolazione in quanto Dasein, il processo sembra qui
essersi arenato ad un punto morto di reciproca incomunicabilità. E le parole
del vecchio di Altamura, che sorprendono un De Martino segretario della
federazione socialista nel segreto di un androne buio, "Vai avanti, tu
che sai, tu che puoi, tu che vedrai; non ci abbandonare, tu che sai, tu che
puoi, tu che vedrai", paiono più l'espressione di una condanna
definitiva del sé che di una fiducia accorata nell'altro.
Lo scandalo dell'asimmetria implicita nell'incontro etnografico
emerge inoltre con forza inattesa quando gli oggetti di studio reclamano
effettivamente una reciprocità, una responsabilità, una presenza da soggetti
nei confronti di De Martino e dell'equipe. "Quando l'equipe fece
ritorno a Roma, ci raggiunse dopo pochi giorni un telegramma che ci fece
sentire tutta la responsabilità della nostra indagine, ricordandoci nel modo
più brutale che i tarantati erano non soltanto documenti di un'altra età, ma
persone vive verso le quali avevamo dei doveri attuali. Nel telegramma si
leggeva: Carmela balla. Venite."10 Inoltre la stessa Assuntina,
cioè Maria di Nardò, in una trasmissione tv di vent'anni dopo l'incontro con De
Martino e l'equipe, afferma: "quelli erano tutti infami, per me".
Infami, cioè traditori, persone che l'avevano usata per i loro scopi, per
ottenere dalla sua storia fama accademica, ma che poi non avevano rispettato
alcuna reciprocità, rivelando con la loro semplice scomparsa e
sottrazione l'illusorietà radicale del primo incontro.
Tuttavia questi limiti costituiscono un vulnus
intrinseco alla descrizione e allo studio della marginalità, per cui non
costituisce necessariamente una colpa che può essere imputata a De Martino il
non essere riuscito ad eluderlo. Egli era del resto consapevole che l'unica
alternativa a questo tentativo sarebbe stata tacere, un'opzione che riteneva
inammissibile. Grande e fertile è al contrario il suo contributo nella
scalcificazione dello sguardo nazionale sul Mezzogiorno e, ancor più, nell'aver
messo a nudo la violenza di una concezione univoca della marginalità, sancendo
attraverso l'etnocentrismo critico la necessaria retroazione dell'osservazione
sull'antropologo stesso, sulle sue categorie di giudizio e sul suo mondo
culturale. Grazie alla pregnanza delle sue riflessioni cade la circoscrizione
di una civiltà separata: quelle popolari sono culture che intrattengono una
relazione stabile, sia di opposizione che di sincretismo, con la cultura
ufficiale, e sono pertanto anch'esse culture di resistenza, dotate di una
storia e di una propria evoluzione, in quanto adattamenti strategici al mutare
delle circostanze storiche e materiali. È solo abolendo l'alterità assoluta in
favore di una visione dell'altra cultura come intrecciata alla propria in
maniera complessa, che diventa possibile innanzitutto comprenderla in maniera
critica e soprattutto esprimere per essa un'autentica solidarietà politica.
Lo sguardo, assolutamente originale, che De Martino adotta
per affrontare tale marginalità è quello che efficacemente Pizza definisce
"molecolare".11 Rivelando in questo una profonda
sintonia con gli scritti di Antonio Gamsci, nelle cui Lettere il termine
"molecolare" ricorre in maniera assidua, l'antropologo si affida a
storie e sguardi molecolari, ovvero ad esperienze e problematiche circoscritte
ad un ambiente spesso assai ristretto, come possono esserlo le pratiche di
fascinazione lucane o i balli pizzicati del Salento contadino, ma lo fa al fine
di raccontare un mondo molto più ampio ed articolato. Il suo sguardo, cioè, non
si limita all'analisi di realtà minime, ma parte da queste concrezioni segniche
e materiali per tracciare un discorso antropologico che rimette in discussione
fin dalle radici il pensiero e la civiltà occidentali nel loro complesso. In
questo modo si stabilisce un rapporto indissolubile tra la scala microfisica e
quella planetaria, proprio come appare evidente nella definizione di
"molecola", quella parte più piccola di una sostanza capace di
mantenerne ancora tutte le proprietà specifiche. Le due dimensioni si
intersecano quindi l'una nell'altra, senza incorrere nei rispettivi limiti
organici: da un lato un'eccessiva angustia di orizzonte, che porterebbe a relativizzare
ad uno specifico contesto le conclusioni tratte e quindi a ridurne l'interesse
teoretico, dall'altro un eccessivo generalismo, che condurrebbe ad una visione
troppo astratta che solo forzosamente sarebbe poi conciliabile con l'insieme
frastagliato e contraddittorio dei mondi locali.
Cosa significa dunque "molecolare"? Per
spiegarlo, ricorrerò all'ottima illustrazione che Eleonora Forenza dà del
termine in rapporto al pensiero gramsciano, con parole che benissimo paiono
adattarsi anche allo spirito di De Martino. Molecolare è una metafora "della
traducibilità tra il metodo della conoscenza e il metodo della trasformazione.
[...] È la storia come processo organico, da analizzare fuori da causalismi
semplificatori che occultano la complessità e la materialità della
trasformazione. Questa prospettiva, lontana
da ogni “riformismo”così come da ogni determinismo catastrofista, si interroga
sui processi di formazione della personalità, di costruzione della volontà
collettiva e del consenso, di produzione di soggettività e di accumulazione di
contraddizioni, sulla costituzione materiale dell’antitesi: è nella tensione
tra il capitalismo come continua crisi e l’antitesi come continua critica che
si può produrre molecolarmente una trasformazione che divenga da quantitativa
qualitativa. Il problema è quello della formazione della soggettività, al di
fuori di psicologismi e soggettivismi, dove si declina il problema politico
della costituzione della soggettività e del soggetto politico nel processo,
individuale e collettivo, di «comprensione critica di se stessi» come
progressiva acquisizione di autocoscienza. La comprensione critica è conoscenza
che trasforma, efficace storicamente,
materialmente, molecolarmente. Molecolare è la critica come processo immanente,
metamorfosi (e retroazione reciproca) del senziente e del cosciente, del
volontario e dell’involontario, dell’oggetto e del soggetto. È il nesso
corpo-mente nella sua storicità e, dunque, nelle sue possibilità di
trasformazione, che il molecolare condensa, divenendo appunto concetto
fondativo per una teoria materialistica della formazione della personalità, per
una concezione radicalmente immanente del processo di soggettivazione".12
Il movimento condotto da Gramsci e De Martino consiste
quindi nell'approfondire un frammento di realtà riconducendo le contraddizioni
che lo permeano ai processi egemonici che strutturano il quadro di cui esso è
un frammento, percorrendo nei due sensi, ininterrottamente, quel sentiero,
composto da relazioni, processi, causalità, forze, che dall'uno conduce agli
altri. Questo approccio favorisce l'approfondimento della comprensione, la
presa effettiva della teoria sulla realtà e, al contrario di quanto avviene
oggi a causa dell'iper-specializzazione del pensiero scientifico, connette
indissolubilmente tale comprensione specifica ai processi strutturali di
formazione dell'egemonia, di trasformazione economica e sociale, ma anche ai
meccanismi di mantenimento psichico dell'equilibrio esistenziale.
L'esplorazione del dettaglio umano diviene dunque fondamentale, proprio perché
mai si confonde con un individualismo esasperato o con tendenze meramente
biografistiche. Piccolo, infatti, non significa né semplice né tantomeno
unitario, ma dischiude già in sé una molteplicità di relazioni, dinamiche,
contraddizioni, a dimostrare l'astrazione irriducibile e illegittima del
concetto di unità, o identità.
Se Gramsci prendeva le mosse dallo studio dei modi di
costruzione e distruzione della persona, dalla formazione delle sue
"abitudini d'ordine", De Martino muove dall'analisi dei rituali di
fascinazione, dai balli dei tarantati; Pasolini dalla gestualità dei ragazzacci
delle periferie romane, Foucault dalla pratiche biopolitiche e dal condizionamento
profondo della nostra corporeità. Gli autori che hanno saputo ascoltare e
valorizzare il dettaglio umano, accoglierlo senza ridurlo e al contempo senza
accondiscendere ad esso, sono allora quelli che hanno gettato una luce più
profonda e duratura sul rapporto tra vita e storia, tra corpo e storia. Vi è in
essi, infatti, la piena consapevolezza che la dimensione molecolare è centrale
per la comprensione dei processi di incorporazione del senso comune e per lo
studio dei rapporti di forza che tessono la realtà, cosicché è attraverso lo
studio minimale delle forme incorporate della statualità nel quotidiano che è
possibile penetrare la vita intima dello stato, l'efficacia politico-fisica
della sua permanente attività culturale. Non è un caso che tutti siano stati
caratterizzati da un pensiero impegnato in prima persona, un pensiero
invischiato nella storia, in ultima analisi da un pensiero profondamente e
autenticamente politico.
Un perfetto esempio di quanto detto è lo studio condotto
nella Terra del rimorso, in cui attraverso un'antropologia molecolare si
ricostruisce il complesso rapporto tra danza, sofferenza sociale e istituzioni,
al tempo stesso proiettando in una dimensione più vasta la questione della
marginalità meridionale. Può emergere così l'intreccio tra i poteri, le
istituzioni, la religione, il corpo, la follia, la condizione femminile, la
miseria; ovvero tra il piano storico, quello corporeo ed esistenziale; ovvero
ancora tra il piano naturale e quello culturale. L'oggetto di studio non è
infatti tanto l'arcaicità di un determinato rituale, quanto piuttosto la
dialettica che a monte lo ha generato, i motivi per cui in tale contesto la
penetrazione della cultura egemone ha zoppicato, dovendosi accontentare di
forme assai ibride di sincretismo.
"La
Terra del rimorso vuole essere un contributo molecolare,
nella prospettiva di una nuova dimensione della questione meridionale: il che
significa che il fenomeno molecolare da cui trae spunto il discorso storico –
il tarantismo – non è considerato nel suo isolamento locale[...] In un più
ampio senso, la Terra
del rimorso è il nostro intero pianeta, o almeno quella parte di esso che è
entrato nel cono d'ombra del suo cattivo passato".13
Ho scelto di mettere a fuoco tale aspetto del pensiero
demartiniano perché oggi mi pare molto difficile, e se ne sente la mancanza nel
panorama culturale, fare proprio questo: tracciare una mappa narrativa,
interpretativa, teorica senza essere astratta o postmodernamente vaga,
attraverso cui ricondurre i singoli e innumerevoli frammenti dispersi del reale
ad una qualche ipotesi di comprensione. Mancano gli strumenti, e soprattutto
manca un metodo, per penetrare efficacemente l'enorme e accresciuta complessità
della nostra civiltà. Di fronte al disorientamento generale della teoria
culturale e della ricerca odierna, pare allora quanto mai interessante prestare
ascolto al suggerimento demartiniano, secondo cui "la via da battere è
quella di ricerche molecolari [...]. Solo così la disgregazione e il caos
possono essere resi partecipi di una coerenza storica definita [...]".14
7E.
DE MARTINO, Una spedizione etnologica studierà scientificamente la vita
delle popolazioni contadine del Mezzogiorno, ne Il Rinnovamento d'Italia,
I settembre 1952, contenuto in L'opera a cui lavoro, a cura di C.
Gallini, Ed. Argo, Lecce 1996
9E.
DE MARTINO, Note di viaggio, in Nuovi Argomenti, I, nr 2, 1953,
contenuto in L'opera a cui lavoro, a cura di C. Gallini