martedì 7 dicembre 2021

Clara Gallini: Protesta e integrazione nella Roma antica

 


Protesta e integrazione nella Roma antica pubblicato nel 1970 dall’editore Laterza è stata un’invasione dell’antropologa Clara Gallini (1) nel campo della storia, seguita dal silenzio più assoluto da parte degli esperti di entrambe le discipline e dall’inevitabile oblio dei mai più ripubblicati. Eppure “quel libro pubblicato nel 1970 circolava nel movimento studentesco e, sorprendentemente, ebbe successo in America Latina.” (2) Stranamente ma, forse, neanche tanto fu Angelo Brelich, il grande studioso di storia delle religioni allievo di K. Kerenyi, a cassare il libro, probabilmente per la sua libertà nell’aprirsi “mentalmente a mondi diversi” usando un metodo comparativo giudicato, al tempo, probabilmente troppo spregiudicato. La tesi di fondo è che i movimenti di protesta nella Roma del II secolo a.C. rappresentati dai baccanali e dalle rivolte servili fossero accomunate da una stessa forma di “possessione” rituale che si esprimeva per i primi nel rapporto non mediato dei suoi membri con la divinità e per i secondi con la guida di un capo carismatico ispirato dal proprio dio personale. Un modello dal basso di “posseduto” dagli dei esprimente istanze di libertà che venivano successivamente riassorbite dall’alto nella “duplice esigenza di aggiornamento di una nuova élite di potere e assieme di integrazione ‘pacifica’ di ogni possibile nuova proposta eversiva, proveniente da settori di marginalizzazione.” (3) Un meccanismo di protesta e integrazione che vedrà il suo culmine nell’età augustea con la divinizzazione dell’imperatore, e il suo relativo culto, per poi ripercorrere un iter analogo con l’affermarsi del cristianesimo. Struttura eterna e inevitabile?

L’autrice ripercorre la storia dei baccanali, la loro apoliticità, che ai tempi significava “presentarsi come movimento religioso autonomo, perché indipendente da ogni forma di controllo diretto dello Stato” che li rendeva, di fatto, antagonisti. E le rivolte servili che conquistarono l’intera isola siciliana per più anni, fino a quella di Spartaco, la cui fama è arrivata fino ai giorni nostri (4). Se gli esiti nefasti di quelle che furono vere e proprie guerre degli schiavi sono conosciute e comunque prevedibili, l’esito finale della storia dei baccanali non può non stupirci. Nell’arco di una notte (siamo nel 186 a.C.) il senato romano emana un editto che ne ordina la repressione comminando migliaia di arresti, espropri di beni, esili ed esecuzioni capitali; il tutto senza guardare in faccia a nessuno nonostante ciò coinvolgesse ceti diversi della popolazione e non solo quella meno abbiente. La pericolosità, avvertita, che fece muovere con una fretta e decisione inusitata il potere costituito in termini che non avevano paragoni rispetto alle rivolte servili, affrontate, quest’ultime, quando ormai erano diventate minacce conclamate, era rappresentata dal fatto che i membri di questi riti orgiastici, apparentemente innocui, “riconoscevano se stessi come membri di un gruppo, e non più soltanto cittadini di una res pubblica.” (5) Schiavi, liberi, donne e uomini, vecchi e bambini, patrizi e plebei in questi rituali che accentuavano il momento festivo che concedeva loro “libertà fuori dalla norma” grazie all’alibi della possessione scardinava alle fondamenta quel “tranquillo sincretismo religioso vissuto entro le forme dell’interpretatio romana”. (6)  Se gli eserciti degli schiavi potevano essere sempre sconfitti militarmente sul campo e i danni da loro provocati riparati nel tempo, i guasti ad un sistema di potere  ben oliato come quello romano da parte di una sua componente sociale interna, se non affrontati in tempo, potevano risultare disastrosi, se non proprio irreparabili.

L’antropologa sfida la storia seminando accostamenti e analogie con realtà temporalmente e spazialmente diverse, fino ad avvicinarsi a noi, dai millenarismi ai ribelli delle società preindustriali. Protesta e integrazione della protesta, ritorna la domanda sull’inevitabilità di una modalità storica che sembra condannata alla ripetizione infinita. Per Clara Gallini, guardando al passato, “il rischio dell’integrazione della protesta appare direttamente proporzionale agli stessi limiti di una contestazione, che non è storicamente in grado di partire da una sufficiente analisi di classe”, e conclude con un’affermazione: “per l’oggi, starà a tutti noi dimostrare il contrario.” A distanza di mezzo secolo possiamo dire di averlo dimostrato?

Giuliano Spagnul

 

Nota 1: Su Clara Gallini in Bottega: http://www.labottegadelbarbieri.org/losservazione-partecipante-di-clara-gallini/

Nota 2: Intervista a Clara Gallini https://www.repubblica.it/cultura/2014/11/03/news/clara_gallini_pensiamo_che_i_miracoli_siano_arcaici_ma_li_abbiamo_inventati_noi_moderni-99626642/

Nota 3: C. Gallini, Protesta e integrazione nella Roma antica, Laterza, Bari, 1979, p. 8-9

Nota 4: Per un’esaustiva, e avvincente (il che non guasta), storia di Spartaco consiglio Aldo Schiavone, Spartaco, Einaudi, Torino, 2016

Nota 5: C. Gallini, Protesta e integrazione nella Roma antica cit. p. 57

Nota 6: ivi p. 64


mercoledì 4 agosto 2021

Clara Gallini: Protesta e integrazione nella Roma antica Recensione 1971

 


Recensione di Anna Barbera Mazzola (Uomo e cultura, 1971)

La metodologia per uno studio marxista delle società precapitalistiche, malgrado gli studi condotti in questa direzione, di cui l’ultimo è quello del Terray, ha ancora molti  punti da chiarire sia per quanto concerne le reciproche relazioni (reali e storiche) tra struttura e sovrastruttura, sia per una ridefinizione delle nozioni di ceto e strato sociale nell’ambito di società da cui è assente la nostra attuale organizzazione classista. Esiste tuttavia una chiave metodologica unificante queste diverse problematiche e quindi l’approccio a mondi degli studi etnologici tradizionali a torto considerati come talmente “diversi”, da non consentire  in essa la verifica di ipotesi  metodologiche utilizzabili per  il contesto  della nostra società  attuale. Si tratta dell’analisi delle strutture di potere, cioè il problema  di quali settori esso investa (politico, economico, sacrale, militare ecc.: settori a loro volta spesso unificabili entro un “fattore sociale totale”); quali gruppi lo detengano, quali conflitti emergano da un lato tra le diverse forme di potere e dall’altro tra potere e contro-potere; come si configurino i rapporti tra struttura e sovrastruttura (in particolare: ideologia) nell'ambito di situazioni così differenziate.

La presente opera della Gallini  propone di verificare secondo questa chiave un momento particolare della storia di Roma: il definitivo tramonto della vecchia città-stato e il primo proporsi di quella nuova dimensione, che nel giro di men di due secoli avrebbe portato Roma al suo assetto imperiale.

In questo periodo Roma inizia a porre le basi della sua struttura schiavistica; si definiscono contemporaneamente insuperabili differenze di ceto (nobilitas senatoria, élite commerciale detentrice di potere economico ma priva  di potere politico, ceti rurali in crisi, plebe urbana sulla via di una sottoproletarizzazione conseguente ai processi immigratori, masse servili, ecc. Si profilano varie forme di  tensione sociale, di cui l’A. analizza gli aspetti nelle zone più marginalizzate.

I ceti subalterni più diseredati iniziano la loro protesta proponendo nuove forme associative – i baccanali, in cui mediante l’estasi e la “possessione” si tenta di evadere dalla realtà e di ascendere in qualche modo a livelli più alti di dignità. Siamo nel 186: mezzo secolo più tardi, le rivolte servili – organizzate sotto la guida di un leader carismatico in diretto contatto con gli dei . minacceranno seriamente l’assetto istituzionale della Repubblica. In entrambi i casi, la protesta sociale assume forme antitetiche a quelle istituzionalizzate dallo stato attraverso i sacerdoti e le magistrature. In particolare, si mette in causa quel legame organico tra famiglia e stato, il cui filo rosso era costituito dai principi di autorità e di rappresentatività. Baccanali e rivolte servili furono brutalmente repressi dall’oligarchia di potere (capp. I, II, e par. 2 del cap. IV).

Il gruppo detentore del potere politico-religioso fu però in grado di elaborare una propria ideologia del potere, che aveva una duplice funzionalità: venne a connettersi in modo sempre più preciso e articolato alle trasformazioni del potere politico, destinato nel breve giro di un secolo, a tramutarsi in potere politico personale; seppe rispondere con funzione integrante alle diverse proposte eversive e liberalizzanti, che provenivano dal basso. È il sorgere della ideologia del capo politico carismatico che abbiamo già visto profilarsi nell’ambito dei ceti subalterni, fonte autonoma di potere politico e religioso, che servirà da centro di riferimento per il nuovo assetto sociale dell’impero.

Si delineano, a questo punto, due linee di ricerca: la prima, più propriamente storica, relativa alle fasi del processo di definizione dei carismi del capo politico (cap. III e IV); la seconda, di analisi più propriamente socio-antropologica, che si propone di identificare i precisi nessi tra i diversi istituti sociali (famiglia, clientelato,  schiavitù, ecc.) e i valori proposti nei loro confronti dal princeps (autorictas, pietas, protezione concessa dal pater patriae, ecc.), il quale si afferma come unico insostituibile modello di integrazione di tutto l’assetto sociale (cap. V).

Tesi interessante e suggestiva dell’A. è che l’integrazione delle eventuali forme di protesta è un rischio costantemente corso dalla dinamica delle società ad economia precapitalistica, nella misura in cui è storicamente assente da esse una netta struttura in classi e quindi la possibilità di una chiara coscienza di classe.

“Al limite, vedremo perfino una contestazione globale costruirsi da sé, con le sue mani, gli strumenti della propria integrazione, nella misura in cui, proponendo un modello utopistico di capovolgimento totale del sistema, suggerirà al princeps di presentarsi come il padre della novella età dell’oro” (p. 9).

L’analisi di questo fenomeno che è forse da assumere come invariante del processo storico è l’argomento dell’ultimo capitolo dell’opera della Gallini.

Siamo di fronte, com’è facilmente intuibile, a un libro a tesi, che appare scritto sotto l’immediata sollecitudine di venti a noi molto vicini nel tempo, e cui anche l’A. fa consapevolmente riferimento nell’Introduzione. In questa prospettiva, si tenta di tirare le fila di molti discorsi sinora presentati settorialmente dai singoli specialisti di varie discipline: storici delle religioni, economisti, storiografi. Si tenta soprattutto di compiere il notevole sforzo metodologico di un’analisi di quei rapporti di potere, che sinora è stata portata avanti solo da sociologi e antropologi a proposito di società contemporanee ed è tutta da verificare nel contesto delle società antiche.

Potranno essere non sufficientemente precisati aspetti marginali del fenomeno considerato, si potrà dissentire sulla tesi fondamentale del lavoro. Ma, al di là di tutto ciò, ci sembra importante segnalare la stimolante provocazione per il lettore specializzato e l’invito implicito a riconsiderare un modo diverso una realtà data quasi per scontata, che dell’opera della Gallini costituiscono l’esito più considerevole. È anche da segnalare lo sforzo di costruzione di un linguaggio anti-accademico che, a sua volta, potrà stimolare anche i “non addetti ai lavori”, invitandoli a riflettere non soltanto sull’ieri, ma anche sull’oggi.

(Il libro a cinquant'anni di distanza non ha avuto nessuna nuova edizione: una recensione con la speranza che possa essere ristampato QUI )

domenica 22 gennaio 2017

21 gennaio 2017 Clara Gallini: la più grande grande antropologa ci ha lasciati!

Milano - Casa della Cultura 14 febbraio 1985

http://www.labottegadelbarbieri.org/losservazione-partecipante-di-clara-gallini/  


"Le buone intenzioni sono quelle di chi, condizionato da un'ottica umanitaristica, crede che per intervenire sul sistema sia sufficiente una denuncia dello sfruttamento, fatta in base a principi morali."
















mercoledì 23 dicembre 2015

Colloqui di Salerno 2015: Giornate demartiniane - intervento di Clara Zanardi





Ernesto De Martino, Carlo Levi, Rocco Scotellaro. Cosa accomuna queste figure, qual è il fil rouge che lega persone e pensieri così diversi? Credo che la risposta non sia semplicemente da ricercarsi nella condivisione di una stessa sfera di interessi (lo studio o la narrazione della cultura contadina del Sud Italia), quanto piuttosto nella tensione politica e umana che li condusse a scavare nei territori fino ad allora pressoché inesplorati della marginalità.
Il fascino e l'interesse che tali autori mantengono inalterati, quando non accresciuti, al giorno d'oggi paiono infatti intrinsecamente legati al loro impegno militante, alla loro assoluta prossimità rispetto al tema trattato. Una prossimità in cui certo permangono forti elementi di contraddizione e di alterità, ma che in ogni caso contraddistingue in maniera unica e peculiare la classe intellettuale di quegli anni. Una figura di intellettuale cioè come colui che non solo possiede un quadro teoretico coerente e lucido, un ricco bagaglio di riferimenti e concetti, ma anche come colui che mette nella ricerca la sua stessa carne, il suo corpo, e che trova le forme più taglienti e profonde, siano esse parole, linee, immagini, per esprimersi ed essere compreso. Pasolini che si aggira per ore nelle periferie romane, che siede, parla, beve e ride con quel popolo infinitamente distante dalla sua aristocraticità, ci appare oggi lontano anni luce dal nostro accademico da concorso, chiuso nella torre d'avorio della propria università, o dal gladiatore da talkshow, impregnato di vuota retorica qualunquista.
In un mondo com'è il nostro, caratterizzato da una complessità crescente e da una sostanziale dispersione del senso, fatichiamo sempre più a leggere il reale, a orientarci tra frammenti sconnessi e discordanti di racconto che mai paiono trovare il conforto di una qualche sintesi credibile. In un mondo in cui ogni voce può avere spazio, ma solo quello di un clic, ci ritroviamo paradossalmente privi di narrazioni laiche e razionali, con l'esito sconfortante di vedere il fanatismo – di qualsiasi colore esso sia - riconquistare quel potere che solo con grandi sforzi eravamo riusciti nel tempo a sottrargli. Il venire meno di una classe intellettuale capace di svolgere un ruolo effettivo nella plasmazione culturale della popolazione è uno degli elementi chiave per comprendere il disorientamento attuale ed è all'interno di questo quadro che lo studio e la riscoperta di figure del calibro di De Martino, Levi e Scotellaro acquista la sua importanza e, direi, la sua urgenza.
Il focus del mio intervento sarà sul metodo adottato da uno di questi autori, Ernesto De Martino, per entrare in relazione profonda con la cultura studiata e per raccontare tale incontro in tutta la sua complessità e contraddittorietà, nella convinzione che, essendo il metodo per definizione riproducibile, esso possa con gli opportuni accorgimenti contribuire ad arricchire e stimolare le prospettive culturali odierne molto più di un encomio od elogio del singolo autore. Molte sono infatti le marginalità che ancora oggi sussistono, o si generano, e ampia risulta tuttora la nostra insufficienza ad approssimarci ad esse in maniera reale e a mettere in discussione i loro confini definitori ed identitari, ed i nostri con i loro.
La via che Ernesto De Martino sceglie per cogliere la realtà contadina del Mezzogiorno è l'etnografia, una grafia che si innesta sul pensiero gramsciano secondo cui tra la cultura egemonica e il mondo popolare subalterno non vi è una rigida contrapposizione dicotomica, ma, come fa notare Giovanni Pizza, "una complessa dialettica in continuo divenire in cui le forze disperse lottano per ricomporsi attraverso iniziative di volontà collettiva volte al mutamento dei rapporti di forza vigenti e alla fabbricazione di un senso comune nuovo, fondato su un progresso intellettuale critico di massa".1 Lo scarto creato dall'abbandono di un'ottica meramente contrappositiva (del tipo noi / gli altri) e dall'apertura verso una visione dialettica delle differenze culturali e di classe consente a De Martino di superare un altrimenti inconciliabile dualismo tra il suo status di intellettuale borghese e la condizione di miseria ed analfabetismo di quelle che lui chiama le "plebi rustiche" del Sud, e costituisce quindi la condizione di possibilità preliminare delle sue ricerche etnografiche.

Ma su quale terreno è possibile un'incontro tra due mondi così differenti? L'elemento che media tra i due poli e consente l'avviarsi dinamico di un processo dialettico in cui la distanza abissale tra intellettuali e popolo può trasformarsi in prossimità e originare una realtà altra, di sintesi, è inequivocabilmente per De Martino l'impegno politico, la lotta sul terreno, fianco e fianco, capace di modificare effettivamente i rapporti di forza su cui si struttura la società italiana del dopoguerra.
De Martino avverte infatti intensamente, con un misto di colpa e dolorosa rabbia, la distanza tra sé, i membri della sua equipe e i suoi "oggetti" di studio, e tutte le Note di viaggio della sua discesa lucana si dispiegano come documento vivo di una umanità che cerca drammaticamente un'altra umanità.2 E' utile qui riportare ancora una volta le sue vibranti impressioni in occasione dell'incontro con i contadini lucani, poiché costituiscono una preziosa testimonianza della difficoltà e del coacervo di contraddizioni che inevitabilmente uno scarto di questa portata genera e dell'intensità autentica con cui esso rimette in movimento le categorie endogene dell'antropologo, non solo a livello del pensiero, ma dell'intera sua forma di vita.
Occorre soprattutto trovare la via del semplice rapporto umano, e inserirsi nel punto esatto in cui è possibile essere con loro nella stessa storia. Quando si riascoltano, in genere predomina lo stupore divertito. Bisognerebbe far comprendere loro che tale loro stupore rappresenta la prima reazione al fatto che due storie per lungo tempo diverse e indipendenti compiono i primi tentativi per diventare una sola comune umana storia. È difficile, e comporta tutta una serie di brucianti umiliazioni, riprendere il colloquio fra due umanità che lo hanno da tempo interrotto. Mi umilia dover abbassare uomini a me contemporanei a oggetti di ricerca, quasi di esperimento.
[...] E non posso evitare il pensiero che solo una società sciagurata può averci ridotto a tanto, Rosa e io, da incontrarci come se fossimo abitanti di diversi pianeti.3
Sono parole in cui coesistono il dolore per la distanza oggettiva tra il mondo di appartenenza e il mondo di ricerca e la ferma convinzione/speranza che tale distanza sarà superata da un comune processo di emancipazione e liberazione. Una coesistenza non sempre pacifica che struttura l'intero pensiero demartiniano, alla continua ricerca di una conciliazione possibile tra interesse scientifico ed impegno etico-politico.
Perché è un fatto così straordinario, così fuori da ogni ragionevolezza, che della gente si sia mossa da Roma per incidere Fronda di Ulivo o gli scongiuri sull'ingorgo mammario o le storie dei monacelli e delle spiritate, da suscitare come prima reazione lo stupore e il riso. "Ma queste sono fesserie nostre!" mi ha detto una volta una contadina di Grottole. "Noi vogliamo mangiare, non cantare!" mi ha gridato brutalmente il bracciante Luigi Dragonetto di Irsina, ma poi mi ha cantato dei versi e siamo diventati amici. La pratica di dissimulare la parte più intima di sé davanti al signore e all'intellettuale, il complesso di inferiorità davanti alla cultura ufficiale sono ostacoli gravi per il nostro lavoro. Perciò abbiamo ottenuto i risultati migliori quando ci siamo riconosciuti tutti come compartecipi di una comune speranza di emancipazione reale.4
L'etnologia è dunque per De Martino ben lontana da un'astratta passione per l'esotico: essa è anzi la premessa irrinunciabile ad una comune lotta politica e come tale deve potersi emancipare dall'orizzonte borghese degli intellettuali che la determinano e provare a guardare alla dialettica egemonica per una volta "dal punto di vista del bracciante", dell'escluso, del povero. Dal momento che la conoscenza va situata in contesti storici reali e la teoria costruita a partire da una ricerca vivente e condivisa, l'intellettuale scende sul campo. Il movimento che egli intraprende con le sue "spedizioni" acquista così una innovativa reciprocità: se l'intellettuale borghese di Roma si allontana dal suo centro culturale e di classe per andare verso un luogo che, nonostante i soli 400 km, pare realmente un altro mondo per studiarne le peculiarità caratteristiche, egli lo fa tuttavia con l'intento di ricomprendere tale marginalità all'interno della propria stessa storia. La sua analisi non circoscrive dunque la realtà studiata, ma anzi lavora criticamente a mettere in discussione quelle frontiere archetipe che ne hanno sancito la marginalità, re-includendola all'interno di un'unica narrazione, quella della coscienza storiografica dell'Occidente nel suo lungo percorso di emancipazione dall'irrazionalità e dalla sottomissione. Egli si allontana cioè per riavvicinare, in tutta la sofferta paradossalità che un tale tentativo implica e che De Martino avverte con estrema acutezza.
Un movimento che, ancor prima delle proprie conclusioni scientifiche, è già in sé una forma critica di conoscenza, poiché è già in sé epochè epistemologica delle proprie categorie di analisi e comprensione della realtà sociale, è già in sé dialettica non ancora composta delle differenti appartenenze culturali. Si tratta quindi in primis di un viaggio nella propria coscienza, nella stoiricità intrinseca con cui individuiamo le culture e le loro pratiche, con cui ne delimitiamo i confini. Non è casuale che tale viaggio demartiniano termini con una riflessione incompiuta sul tema dell'apocalisse, un'apocalisse che investe in particolare il mondo borghese, il suo esasperato individualismo, la sua tendenza egemonica che, imprigionata nella sterile opposizione con il mondo subalterno, impedisce la costruzione di una cultura laica comune, di un umanesimo autenticamente integrale che è il vero traguardo ideale della speculazione demartiniana, la sua - forse impossibile? - sintesi finale.
Ma che cos'è questa marginalità che De Martino sceglie di eleggere a tema della propria riflessione? Per comprendere l'importanza dell'operazione demartiniana e la innovatività della sua proposta è indispensabile soffermarsi su tale immagine-concetto. Come fa notare David Forgacs in Margini d'Italia, l'esclusione sociale dall'Unità ad oggi,5 infatti, i margini non sono dati naturali, ma prodotti di determinati modi di vedere e di organizzare lo spazio sociale, di una serie di relazioni spaziali e di potere. Si tratta quindi di prodotti discorsivi, e non dei modi in cui si riproduce nella lingua una realtà oggettiva preesistente. Non sono regioni o culture che sono diventati marginali, ma esse hanno cominciato ad essere viste come marginali e proprio l'instabilità, fluidità ed estrema versatilità dell'uso del termine ne hanno segnato il successo nelle scienze sociali, la possibilità di applicarlo a ogni realtà. Le persone marginali sono quindi normalmente definite non in positivo, per ciò che esse fanno o costruiscono, ma in negativo per ciò che ad esse manca rispetto ad un dato standard. L'identificazione di un margine comporta infatti sempre il posizionamento di quel luogo in relazione ad un altro luogo visto come centrale: il binarismo io/l'altro si riproduce così nella collocazione spaziale centro/periferia. Riconoscere una realtà come marginale significa quindi porla a distanza da sé e, d'altra parte, riconoscersi come marginali significa aver interiorizzato e fatto proprio il linguaggio dominante e le sue categorie, un meccanismo che appare con chiarezza nella vergognosa ritrosia con cui i contadini lucani si rapportano inizialmente all'antropologo napoletano.
Il valore della ricerca demartiniana e l'intensità della sua tensione politica si avvertono con maggiore forza esattamente nella loro radicale e ultima messa in crisi del meccanismo binario della marginalità. Le culture contadine del Sud non vengono più intese come residui arcaici, tagliati fuori senza appello dal tempo e dalla storia, immobili nelle proprie ataviche consuetudini, ma come realtà a loro modo dinamiche, a noi contemporanee in quanto in costante relazione dialettica con le forme culturali egemoniche che strutturano anche il nostro mondo storico. Da qui il tentativo di reintegrare la magia lucana nella società meridionale di cui fa parte, e quindi in quel mondo moderno in cui a sua volta è inserita la società meridionale. Un processo di progressive re-inclusioni subentra così ad una tendenza dominante ad esclusioni concentriche, ottenendo al posto di una visione statica di residui fossili sopravviventi una vera e propria dinamica culturale. Il Sud non è quindi un'isoletta sperduta nell'oceano, a immensa distanza dal continente, ma un mondo in cui anche ciò che agli occhi moderni sembra più retrivo, le sopravvivenze magiche lucane, in realtà vive e assolve ad una sua propria funzione, risponde a problemi contemporanei e intesse una relazione sincretica più o meno conflittuale con le forme egemoniche di vita culturale, a cominciare dal cattolicesimo.6
Nella risposta che nel 1952 De Martino dà all'appello di Zavattini agli intellettuali italiani sulle colonne de Il Rinnovamento d'Italia questa originale rilettura della marginalità meridionale emerge con chiarezza. Scrive De Martino: "[...] il punto fondamentale, che cela un equivoco al quale non è facile sottrarsi, sta tutto in quella parola "ignorante" che, una volta pronunziata, taglia con un colpo netto ogni rapporto umano tra intellettuale e popolo. [...] Questi contadini non mi ponevano solo domande, e in ogni caso la loro vita culturale non si esauriva nel domandare. La società li aveva lasciati nella miseria, aveva negato loro i due potenti mezzi tecnici della cultura, il saper leggere e scrivere, ma essi come persone intere, non si erano mai rassegnati a recitare nel mondo la parte degli incolti, e sotto la spinta dei momenti critici dell'esistenza avevano costruito un sistema di risposte, cioè una vita culturale, formando così, di fronte alla tradizione scritta della cultura egemonica, la tradizione orale del loro sapere. La cultura egemonica aveva cercato di raggiungerli e di padroneggiarli attraverso il cattolicesimo popolare: ma essi avevano costretto lo stesso cattolicesimo e la stessa potenza della chiesa a compromessi con loro, e assai spesso a lasciar correre e a lasciar passare."7
Dopo aver condotto un esame critico del proprio posizionamento storico-culturale e delle proprie categorie ermeneutiche, ciò che l'intellettuale può fare per difendere il diritto dei popoli subalterni ad "essere persone intere", è allora cercare la forma più adeguata per "dare loro voce".8 In questo punto egli va però incontro ad una aporia insanabile, la mancanza della cui individuazione costituisce forse la lacuna più profonda della ricerca sul campo di De Martino nel Mezzogiorno. Per quanto critico ed autoriflessivo, infatti, il processo di descrizione etnografica incorpora inevitabilmente una relazione di potere. Chi punta l'obiettivo della macchina fotografica? Chi guarda poi la fotografia o legge i libri? Chi si spinge fuori, sul campo, e per chi rendiconta? Colui che osserva dal centro della società possiede mezzi, conoscenze e tecnologia potenti per descrivere, definire, selezionare, nonché ha accesso ai canali di distribuzione; tutte caratteristiche da cui sono escluse le popolazioni studiate.
Lo stesso proposito di parlare per l'altro, di "dargli voce", appare alquanto insidioso, in un duplice senso. In primo luogo il rischio è che l'atto stesso di denunciare le condizioni di queste persone e la convinzione di poterli così avvicinare al centro possano servire da palliativo o da catarsi, sia per chi denuncia che per il pubblico finale, e questo può impedire loro di identificare le vere cause di tale condizione (disuguaglianza economica, leggi, politiche, pregiudizi...). I marginali vengono allora visti con paternalismo (come accade nel pensiero cattolico) o con solidarietà (tra compagni di una visione politica emancipatoria), ma solo di rado sono resi essi stessi i soggetti attivi o i protagonisti di una lotta per cambiare, dal momento che tale lotta potrebbe non solo sconvolgere la loro condizione marginale, ma anche mettere in questione il ruolo di quelli che sostengono la loro causa e la loro posizione centrale. Si finisce dunque per essere involontariamente complici delle strutture di potere che si analizzano e pur si criticano. In secondo luogo, l'atto stesso di dare voce significa riaffermare la propria esclusiva possibilità di condurre la narrazione, mantenendo l'altro in una condizione di subalternità e passiva dipendenza dalla parola egemone. Anziché promuovere forme di auto-emancipazione dell'altro, ci si ripropone quindi implicitamente come mediazione necessaria per accedere alla dimensione del pubblico, del politico, del culturale.
Ai contadini del Sud è negato esattamente questo, la possibilità e la capacità di narrarsi da sè, di prendere la parola e di farlo in un modo che possa colmare finalmente l'abisso tra la loro miseria tramandata per via orale e la scrittura in cui la cultura egemone si incarna. Quella scrittura che, come rileva De Martino, per essi costituisce un complesso di segni ignoti o mal noti da cui risulta che bisogna pagare certe tasse, partire per certe guerre, scontare tanti anni di galera; quella scrittura che può addirittura diventare un momento critico dell'esistenza, come la tempesta o la malaria, mentre i caratteri dell'alfabeto, il periodo scritto, possono tramutarsi in potenze oscure, maligne, e quindi anche magicamente utilizzabili. E così contro il malocchio vale un giornale sotto il cuscino, perché il fascino, magicamente ammaliato dai caratteri a stampa, è costretto a leggerli ad uno ad uno, probabilmente con la stessa penosa fatica dei semianalfabeti, e intanto, mentre va così sillabando e imbrogliandosi nella lettura, passa la notte, e con essa il tempo propizio per operare.9
De Martino si rende perfettamente conto che la sua forma di espressione e quella delle popolazioni cui è solidaristicamente ed empaticamente vicino sono e rimangono inconciliabili, sa che nessuno dei suoi oggetti di studio potrebbe essere in grado di capire i suoi testi, i risultati delle sue ricerche che pur parlano di loro. Illuminante è la risposta che gli abitanti di Albano di Lucania nel '78 danno alle domande sul giudizio e sul ricordo che essi avevano sull'antropologo che anni prima aveva visitato il loro villaggio: "ciò che ha scritto corrisponde al 50% alla verità, l'altro 50% se l'é inventato. Non ha detto tutto, anzi ha detto tutto, ma ha aggiunto qualcosa di sua immaginazione. No, non c'era risentimento per i suoi libri, ma quella specie di riservatezza che hanno tutti i meridionali di non essere rimproverati di ignoranza. Quelli credevano nella magiare, nelle fatture...".
Il succo che quelle persone avevano estratto dai testi demartiniani era un vago sentore di ignoranza; la loro introiettata subalternità aveva trovato una sostanziale conferma nell'incapacità di comprendere il ragionamento demartiniano, vissuto come testimonianza inappellabile della loro arretratezza e ignoranza, nonché nel bisogno spontaneo e immediato di smarcarsi da quella rappresentazione, presentandola come superata, come ormai passata. Proprio quell'ignoranza che per De Martino tagliava con un colpo netto ogni rapporto umano tra intellettuale e popolo torna come un'accusa sulla elaborazione postuma che il popolo ha del suo sguardo di intellettuale borghese. In questa testimonianza emerge nitidamente il divario incolmabile tra i due mondi: come può l'intellettuale pretendere di dare voce al popolo, se quest'ultimo non solo non si riconosce nelle sue parole, ma se ne sente umiliato e frustrato? Se per De Martino il fulcro della storia rimane l'autocoscienza storica dei singoli e dei popoli posti ai margini, condizione necessaria di possibilità della loro emancipazione reale e della loro piena articolazione in quanto Dasein, il processo sembra qui essersi arenato ad un punto morto di reciproca incomunicabilità. E le parole del vecchio di Altamura, che sorprendono un De Martino segretario della federazione socialista nel segreto di un androne buio, "Vai avanti, tu che sai, tu che puoi, tu che vedrai; non ci abbandonare, tu che sai, tu che puoi, tu che vedrai", paiono più l'espressione di una condanna definitiva del sé che di una fiducia accorata nell'altro.
Lo scandalo dell'asimmetria implicita nell'incontro etnografico emerge inoltre con forza inattesa quando gli oggetti di studio reclamano effettivamente una reciprocità, una responsabilità, una presenza da soggetti nei confronti di De Martino e dell'equipe. "Quando l'equipe fece ritorno a Roma, ci raggiunse dopo pochi giorni un telegramma che ci fece sentire tutta la responsabilità della nostra indagine, ricordandoci nel modo più brutale che i tarantati erano non soltanto documenti di un'altra età, ma persone vive verso le quali avevamo dei doveri attuali. Nel telegramma si leggeva: Carmela balla. Venite."10 Inoltre la stessa Assuntina, cioè Maria di Nardò, in una trasmissione tv di vent'anni dopo l'incontro con De Martino e l'equipe, afferma: "quelli erano tutti infami, per me". Infami, cioè traditori, persone che l'avevano usata per i loro scopi, per ottenere dalla sua storia fama accademica, ma che poi non avevano rispettato alcuna reciprocità, rivelando con la loro semplice scomparsa e sottrazione l'illusorietà radicale del primo incontro.

Tuttavia questi limiti costituiscono un vulnus intrinseco alla descrizione e allo studio della marginalità, per cui non costituisce necessariamente una colpa che può essere imputata a De Martino il non essere riuscito ad eluderlo. Egli era del resto consapevole che l'unica alternativa a questo tentativo sarebbe stata tacere, un'opzione che riteneva inammissibile. Grande e fertile è al contrario il suo contributo nella scalcificazione dello sguardo nazionale sul Mezzogiorno e, ancor più, nell'aver messo a nudo la violenza di una concezione univoca della marginalità, sancendo attraverso l'etnocentrismo critico la necessaria retroazione dell'osservazione sull'antropologo stesso, sulle sue categorie di giudizio e sul suo mondo culturale. Grazie alla pregnanza delle sue riflessioni cade la circoscrizione di una civiltà separata: quelle popolari sono culture che intrattengono una relazione stabile, sia di opposizione che di sincretismo, con la cultura ufficiale, e sono pertanto anch'esse culture di resistenza, dotate di una storia e di una propria evoluzione, in quanto adattamenti strategici al mutare delle circostanze storiche e materiali. È solo abolendo l'alterità assoluta in favore di una visione dell'altra cultura come intrecciata alla propria in maniera complessa, che diventa possibile innanzitutto comprenderla in maniera critica e soprattutto esprimere per essa un'autentica solidarietà politica.
Lo sguardo, assolutamente originale, che De Martino adotta per affrontare tale marginalità è quello che efficacemente Pizza definisce "molecolare".11 Rivelando in questo una profonda sintonia con gli scritti di Antonio Gamsci, nelle cui Lettere il termine "molecolare" ricorre in maniera assidua, l'antropologo si affida a storie e sguardi molecolari, ovvero ad esperienze e problematiche circoscritte ad un ambiente spesso assai ristretto, come possono esserlo le pratiche di fascinazione lucane o i balli pizzicati del Salento contadino, ma lo fa al fine di raccontare un mondo molto più ampio ed articolato. Il suo sguardo, cioè, non si limita all'analisi di realtà minime, ma parte da queste concrezioni segniche e materiali per tracciare un discorso antropologico che rimette in discussione fin dalle radici il pensiero e la civiltà occidentali nel loro complesso. In questo modo si stabilisce un rapporto indissolubile tra la scala microfisica e quella planetaria, proprio come appare evidente nella definizione di "molecola", quella parte più piccola di una sostanza capace di mantenerne ancora tutte le proprietà specifiche. Le due dimensioni si intersecano quindi l'una nell'altra, senza incorrere nei rispettivi limiti organici: da un lato un'eccessiva angustia di orizzonte, che porterebbe a relativizzare ad uno specifico contesto le conclusioni tratte e quindi a ridurne l'interesse teoretico, dall'altro un eccessivo generalismo, che condurrebbe ad una visione troppo astratta che solo forzosamente sarebbe poi conciliabile con l'insieme frastagliato e contraddittorio dei mondi locali.
Cosa significa dunque "molecolare"? Per spiegarlo, ricorrerò all'ottima illustrazione che Eleonora Forenza dà del termine in rapporto al pensiero gramsciano, con parole che benissimo paiono adattarsi anche allo spirito di De Martino. Molecolare è una metafora "della traducibilità tra il metodo della conoscenza e il metodo della trasformazione. [...] È la storia come processo organico, da analizzare fuori da causalismi semplificatori che occultano la complessità e la materialità della trasformazione. Questa prospettiva, lontana da ogni “riformismo”così come da ogni determinismo catastrofista, si interroga sui processi di formazione della personalità, di costruzione della volontà collettiva e del consenso, di produzione di soggettività e di accumulazione di contraddizioni, sulla costituzione materiale dell’antitesi: è nella tensione tra il capitalismo come continua crisi e l’antitesi come continua critica che si può produrre molecolarmente una trasformazione che divenga da quantitativa qualitativa. Il problema è quello della formazione della soggettività, al di fuori di psicologismi e soggettivismi, dove si declina il problema politico della costituzione della soggettività e del soggetto politico nel processo, individuale e collettivo, di «comprensione critica di se stessi» come progressiva acquisizione di autocoscienza. La comprensione critica è conoscenza che trasforma, efficace storicamente, materialmente, molecolarmente. Molecolare è la critica come processo immanente, metamorfosi (e retroazione reciproca) del senziente e del cosciente, del volontario e dell’involontario, dell’oggetto e del soggetto. È il nesso corpo-mente nella sua storicità e, dunque, nelle sue possibilità di trasformazione, che il molecolare condensa, divenendo appunto concetto fondativo per una teoria materialistica della formazione della personalità, per una concezione radicalmente immanente del processo di soggettivazione".12
Il movimento condotto da Gramsci e De Martino consiste quindi nell'approfondire un frammento di realtà riconducendo le contraddizioni che lo permeano ai processi egemonici che strutturano il quadro di cui esso è un frammento, percorrendo nei due sensi, ininterrottamente, quel sentiero, composto da relazioni, processi, causalità, forze, che dall'uno conduce agli altri. Questo approccio favorisce l'approfondimento della comprensione, la presa effettiva della teoria sulla realtà e, al contrario di quanto avviene oggi a causa dell'iper-specializzazione del pensiero scientifico, connette indissolubilmente tale comprensione specifica ai processi strutturali di formazione dell'egemonia, di trasformazione economica e sociale, ma anche ai meccanismi di mantenimento psichico dell'equilibrio esistenziale. L'esplorazione del dettaglio umano diviene dunque fondamentale, proprio perché mai si confonde con un individualismo esasperato o con tendenze meramente biografistiche. Piccolo, infatti, non significa né semplice né tantomeno unitario, ma dischiude già in sé una molteplicità di relazioni, dinamiche, contraddizioni, a dimostrare l'astrazione irriducibile e illegittima del concetto di unità, o identità.
Se Gramsci prendeva le mosse dallo studio dei modi di costruzione e distruzione della persona, dalla formazione delle sue "abitudini d'ordine", De Martino muove dall'analisi dei rituali di fascinazione, dai balli dei tarantati; Pasolini dalla gestualità dei ragazzacci delle periferie romane, Foucault dalla pratiche biopolitiche e dal condizionamento profondo della nostra corporeità. Gli autori che hanno saputo ascoltare e valorizzare il dettaglio umano, accoglierlo senza ridurlo e al contempo senza accondiscendere ad esso, sono allora quelli che hanno gettato una luce più profonda e duratura sul rapporto tra vita e storia, tra corpo e storia. Vi è in essi, infatti, la piena consapevolezza che la dimensione molecolare è centrale per la comprensione dei processi di incorporazione del senso comune e per lo studio dei rapporti di forza che tessono la realtà, cosicché è attraverso lo studio minimale delle forme incorporate della statualità nel quotidiano che è possibile penetrare la vita intima dello stato, l'efficacia politico-fisica della sua permanente attività culturale. Non è un caso che tutti siano stati caratterizzati da un pensiero impegnato in prima persona, un pensiero invischiato nella storia, in ultima analisi da un pensiero profondamente e autenticamente politico.
Un perfetto esempio di quanto detto è lo studio condotto nella Terra del rimorso, in cui attraverso un'antropologia molecolare si ricostruisce il complesso rapporto tra danza, sofferenza sociale e istituzioni, al tempo stesso proiettando in una dimensione più vasta la questione della marginalità meridionale. Può emergere così l'intreccio tra i poteri, le istituzioni, la religione, il corpo, la follia, la condizione femminile, la miseria; ovvero tra il piano storico, quello corporeo ed esistenziale; ovvero ancora tra il piano naturale e quello culturale. L'oggetto di studio non è infatti tanto l'arcaicità di un determinato rituale, quanto piuttosto la dialettica che a monte lo ha generato, i motivi per cui in tale contesto la penetrazione della cultura egemone ha zoppicato, dovendosi accontentare di forme assai ibride di sincretismo.
"La Terra del rimorso vuole essere un contributo molecolare, nella prospettiva di una nuova dimensione della questione meridionale: il che significa che il fenomeno molecolare da cui trae spunto il discorso storico – il tarantismo – non è considerato nel suo isolamento locale[...] In un più ampio senso, la Terra del rimorso è il nostro intero pianeta, o almeno quella parte di esso che è entrato nel cono d'ombra del suo cattivo passato".13

Ho scelto di mettere a fuoco tale aspetto del pensiero demartiniano perché oggi mi pare molto difficile, e se ne sente la mancanza nel panorama culturale, fare proprio questo: tracciare una mappa narrativa, interpretativa, teorica senza essere astratta o postmodernamente vaga, attraverso cui ricondurre i singoli e innumerevoli frammenti dispersi del reale ad una qualche ipotesi di comprensione. Mancano gli strumenti, e soprattutto manca un metodo, per penetrare efficacemente l'enorme e accresciuta complessità della nostra civiltà. Di fronte al disorientamento generale della teoria culturale e della ricerca odierna, pare allora quanto mai interessante prestare ascolto al suggerimento demartiniano, secondo cui "la via da battere è quella di ricerche molecolari [...]. Solo così la disgregazione e il caos possono essere resi partecipi di una coerenza storica definita [...]".14

1G. PIZZA, Gramsci e De Martino. Appunti per una riflessione, in Quaderni di Teoria Sociale 2013
2E. DE MARTINO, Note di viaggio, in Nuovi Argomenti, 1953
3Ibidem
4Ibidem
5D. FORGACS, Margini d'Italia. L'esclusione sociale dall'Unità ad oggi, Ed. Laterza, Bari 2015
6E. DE MARTINO, Magia e civiltà
7E. DE MARTINO, Una spedizione etnologica studierà scientificamente la vita delle popolazioni contadine del Mezzogiorno, ne Il Rinnovamento d'Italia, I settembre 1952, contenuto in L'opera a cui lavoro, a cura di C. Gallini, Ed. Argo, Lecce 1996
8Ibidem
9E. DE MARTINO, Note di viaggio, in Nuovi Argomenti, I, nr 2, 1953, contenuto in L'opera a cui lavoro, a cura di C. Gallini
10E. DE MARTINO, La Terra del rimorso, Il Saggiatore, Milano 1996, pag. 93
11G. PIZZA, Gramsci e De Martino. Appunti per una riflessione, in Quaderni di Teoria Sociale, 2013
12E. FORENZA, Molecolare, in Dizionario gramsciano, Carocci Editore, 2009
13E. DE MARTINO, La terra del rimorso, 1961, pag. 13

14Ivi, pag. 29-30

sabato 12 dicembre 2015

Le giornate demartiniane di Salerno

http://www.iconfronti.it/colloqui-di-salerno-2015-le-giornate-demartiniane/ 

Colloqui di Salerno 2015 / Le giornate demartiniane

L'etnologo e antropologo Ernesto De Martino
L’etnologo e antropologo Ernesto De Martino
La seconda sessione dei Colloqui di Salerno 2015 – il cui tema è Grandi Memorie – è occupata dalle “giornate demartiniane”, che tengono dietro alla “settimana kantoriana” dello scorso novembre. Da lunedì 14 al 16 dicembre, si celebra Ernesto De Martino, a cinquanta anni dalla morte e, con quella del grande etnoantropologo, si ricordano le figure di Carlo Levi e Rocco Scotellaro.
Ernesto de Martino ha raccontato al mondo la cultura magico-religiosa del Sud, lo splendore e la miseria di un Mezzogiorno che «va al di là della geografia per diventare una regione dell’anima» (Niola). In pieno miracolo economico, il grande antropologo, con Sud e MagiaMorte e Pianto rituale e con La terra del rimorso, costringeva il nostro paese a prendere atto che l’Italia profonda non corrispondeva all’immagine che il paese aveva di sé. Una grande lezione di metodo sulla quale è doveroso continuare a riflettere.
Del grande capostipite dell’antropologia novecentesca i Colloqui provano ad indagare gli aspetti della personalità più enigmatici e suggestivi, con una rilettura del nucleo profondo del pensare critico demartiniano, anche sulla base di nuovi documenti e studi relativi alla sua formazione giovanile.
È appena il caso di ricordare come negli anni Settanta del secolo scorso si radicò, nel tessuto culturale salernitano, un humus antropologico-culturale molto forte dovuto soprattutto alla presenza di Annabella Rossi, la studiosa allieva di Ernesto de Martino, titolare della Cattedra di Antropologia culturale di quella Università. Una prospettiva antropologica “demartiniana” che affascinò giovani, intellettuali, operatori della cultura, artisti, associazioni e gruppi radicati sul territorio.
Con de Martino, i Colloqui intendono ricordare altre due figure di intellettuali e meridionalisti del secolo scorso, studiosi legati all’opera e alla vita dell’etnologo napoletano: Carlo Levi, scomparso proprio quarant’anni fa, e Rocco Scotellaro – lo scrittore, poeta, politico scomparso prematuramente a soli trent’anni, amico di Levi e di de Martino il cui romanzo autobiografico, L’uva puttanella, fu pubblicato postumo, sessant’anni fa, nel 1955.
Mentre da più parti si pone giustamente attenzione soprattutto al quarantennale della morte dell’autore di Cristo s’è fermato ad Eboli, a Salerno saranno posti in evidenza i settanta anni (1945, Einaudi) della prima edizione della celebre opera e gli ottanta anni dalla data dell’esilio dello scrittore-pittore in Basilicata. Per l’attività antifascista nelle file di Giustizia e Libertà, Levi, infatti, nel 1935 è confinato, prima a Grassano, poi a Gagliano(in realtà, Aliano). Anni dopo, l’autore narrerà in prima persona le sue vicende e descriverà usi e costumi di una «gente mite, rassegnata e passiva, impenetrabile alle ragioni della politica».
Levi scrive Cristo s’è fermato ad Eboli tra il Natale del’43 e luglio del’44: l’opera – per metà diario e per metà romanzo – propone una prosa emotivamente partecipata, con digressioni storiche e antropologiche su temi come la civiltà contadina, il brigantaggio, i riti magici delle plebi meridionali. Un testo esemplare, tra arte e documento, prosa di memoria e reportage politico-sociale, destinato a influenzare non solo la letteratura ma anche le arti figurative ed il cinema neorealisti.
La storia della militanza politica di Scotellaro, ancora in larga parte da scrivere, coincide con quella culturale del Paese nell’immediato ultimo dopoguerra. Il ritrovamento (a Matera e ad Ivrea) di alcune lettere di questo grande “testimone e simbolo di una generazione” (L. Sacco), scritte tra il 1952 e il 1953, quasi tutte da Portici, ha messo in moto la ricerca di ulteriori fonti, documenti e immagini, che si legano alla sua fulminea parabola politica. Animato da una forte carica morale e ideale, profusa nella produzione letteraria e nell’impegno politico, Scotellaro (Tricarico 1923-Portici 1953) è assurto a simbolo delle lotte per il riscatto del meridione. Ha anche lasciato liriche che – a giudizio di Montale – rimangono «le più significative del nostro tempo». Alle poesie – É fatto giorno (1954) – si affiancano le prose di Contadini del Sud (Laterza, 1954), e l’autobiografico L’uva puttanella (ivi, 1955). Gli scritti giovanili si trovano in Uno si distrae al bivio (pref. di Carlo Levi, 1974) e inGiovani soli (pref. di Leonardo Sacco, 1984).
Ricordando il poeta sindaco tricaricese, i Colloqui sottolineano anche il fervido periodo del suo intenso sodalizio con la poetessa Amelia Rosselli.
Amelia Rosselli parla di Rocco (intervista a Sandra Petrignani, 1978): […] «Ero seduta nelle ultime file della sala [22 aprile 1950, Venezia, primo convegno partigiano: La Resistenza e la cultura in Italia], e a un certo momento si avvicinò un giovane simpaticissimo. Quando seppe che ero la figlia di Carlo Rosselli, sorpreso e interessato, si mostrò sempre più attento a me. Diventammo amici».
Ed ecco la versione di Rocco: «Quando capii il suo nome (parlava con accento inglese) non so se mi rafforzò il pensiero di essere amico e di innamorarmi di lei o piuttosto di venerarla come la figlia di un grande martire, che parlava più di tutti in quel convegno. Forse mi innamorava e la veneravo insieme. Sui poggioli delle sedie di ferro i nostri gomiti si toccavano. Pensavo di vederla, alta come me, quando ci fossimo alzati. E io chi ero? Lo dissi. Mi sapeva. Lesse le mie poesie. Accennò dei giudizi non completamente lusinghieri: ciò che permise uno scambio di sguardi che mi fecero più ardito. Uscimmo insieme. Mangiava al mio stesso ristorante ed era una coincidenza calzante. La presentai a tanti, me la sentivo già mia». E, più avanti, «ella luccica in volto come ieri. Sono due giorni che il suo splendore mi turba. Mi sento schifoso a confronto della sua bellezza». Oppure: «Metto a paragone lei con la solita ragazza illibata dagli occhioni melanconici e dalla carne che aspetta di essere toccata. È sempre la mia amica che si salva e vince, va in alto, guarda lontano, mi annienta, io sono a terra». Amelia aveva presto sublimato quel rapporto in legame familiare, «fratello e sorella» diceva, o piuttosto surrogato paterno e, morto Rocco, precipiterà di nuovo nella depressione, ma raccoglierà il testimone della poesia.
Programma scientifico
Martedì 15
Università degli Studi – Aula Imbucci
ore 10,00 Incontro con Amalia Signorelli
ore 10,30 Carlo Levi, Rocco Scotellaro e lo spirito di De Martino
Partecipano: Sebastiano Martelli (Univ. Salerno), Pasquale Doria (giornalista e scrittore), Carmela Biscaglia (Dir. Centro Documentazione Scotellaro), Maria Antonietta Cancellaro (Pres. Centro Levi Matera), Raffaele Rauty (Univ. Salerno)

Mercoledi 16
Università degli Studi –
Ore 10,00 Giordana Charuty (Ernesto De Martino. Le precedenti vite di un antropologo), Emilia Andri (Il giovane De Martino) – Patrizia Marzo (Il progetto Itinerari demartiniani) – Maurizio Merico (Ernesto De Martino, la Puglia, il Salento) (Univ. Salerno Clara Zanardi (Sul filo della presenza. De Martino tra filosofia e antropologia) Modera: Vincenzo Esposito
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PROGRAMMA DIVULGATIVO
Lunedì 14, Convitto Nazionale Tasso, dalle 19
Ascolto guidato di musiche tradizionali della Basilicata, nelle registrazioni effettuate (1952) da De Martino e da Diego Carpitella. A guidare il pubblico nell’ascolto di un così ricco materiale sonoro Ugo Vuoso, direttore del Centro etnografico caampano. A seguite
CATERINA PONTRANDOLFO TRIO
Lucania in canto – Concerto Spettacolo
Paolo Del Vecchio chitarre, bouzouki – Francesco Paolo Manna percuissioni
CATERINA PONTRANDOLFO – Cantante/performer, attrice, drammaturga, regista. Studia Economia Politica presso la Bocconi di Milano. Si forma come attrice a Milano presso la Civica Scuola D’Arte Drammatica Paolo Grassi. Interprete, per la regia di Giancarlo Sepe, di The Dubliners al Festival di Spoleto 2015 e nella stagione 2014/2015 presso il teatro La Comunità di Roma e di Napoletango (dal Teatro San Carlo al londinese Colosseum Theatre); fa parte del pluripremiato format Dignità Autonome di Prostituzione curato da Luciano Melchionna; ha recitato assoli e cantato al Brancaccio di Roma, al Bellini di Napoli, al Paisiello di Lecce, a Cinecittà. Per 4 stagioni consecutive ha lavorato al Progetto Pulcinella dello Stabile di Napoli, con Carpentieri, Taiuti e Serao. A teatro ha, tra gli altri, lavorato anche con Marco Baliani, Adriana Innocenti e Piero Nuti, Antonio Catalano, Maria Maglietta, Alessandra Rossi Ghiglione. Ha pubblicato e messi in scena suoi testi: Ricami, Storia di Giuditta CavaliereMadri, Maria Nera (I Teatri del Sacro 2009).
Come cantante collabora con numerosi musicisti della scena napoletana – da Faiello a Mesolella – e internazionale (nell’ambito della musica new folk è spesso paragonata a Lisa Gerrard). È presente nei progetti discografici Rosa Napoletano, che riunisce le voci femminili più significative della scena partenopea. Nelle ultime stagioni realizza Sette Stazioni Sonore per il Fringe Festival LaMama Spoleto Open 2012; Il sogno di Mimì-Suite per un‘anima sulla biografia di Mia Martini; Oratorio Bizantino con lo scrittore Franco Arminio e il fisarmonicista-compositore Admir Shkurtay; il progetto Fimmine Fimmine e lo spettacolo Cantar per Terre. Ospite di Ambrogio Sparagna e della sua Orchestra Popolare e in concerti di Vinicio Capossela. Nel 2013 si è esibita, al seguito del Treno della memoria, ad Auschwitz, Birkenau e Cracovia.Nel 2014 la Comunità Ebraica di Napoli, la invita a cantare in sinagoga. Canta in tutti i dialetti del Sud Italia, in portoghese, in ebraico, in gaelico.

PAOLO DEL VECCHIO – Chitarrista e docente, ha collaborato con Peppe Barra, James Senese, Nino Buonocore, Daniele Sepe, Antonio Sinagra, Gabin e Paul Dabirè, Pietra Montecorvino, Raiz, Spakka Neapolis, M’barka Ben Taleb, Antonio Infantino, Alfio Antico, Marco Zurzolo, Lino Cannavacciuolo, Valentina Stella, Elena Ledda, Mario Conte e molti altri. Autore di musiche per il teatro: La Favola Di Amore e Psiche, con Andrè De La Roche; La Cantata dei Pastori, regia di Peppe Barra; La Commedia Degli Errori, regia di Leo Muscato.

FRANCESCO PAOLO MANNA -. Affascinato dai tamburi a mano vi si avvicina da autodidatta nel 1993 partendo dai djembè africani e dai bongos. Studia le tecniche del tamburello e della tammorra con Arnaldo Vacca e Alfio Antico, zarb e daf con il maestro iraniano Mohsen Kassirrosafar, bodhran e rig presso il Conservatorio di Damasco. Ha collaborato con diversi gruppi e artisti come Ancia Libera, Taranterrae, Etnie, Federico Verdoliva, Caterina Pontrandolfo, Daniele Sepe, Paolo Cimmino, Zezi teatro, Giovanni Coffarelli. Docente di batteria e percussioni. Cultore dei tamburi a cornice.

MARTEDÌ 15
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI, AULA IMBUCCI, ORE 12,30

Reading Amelia Rosselli – Rocco Scotellaro
a cura di
Caterina Pontrandolfo e Pasquale De Cristofaro
da Cantilena per Rocco di Amelia – da È fatto giorno di Rocco

 

CONVITTO NAZIONALE TASSO – BIBLIOTECA, DALLE ORE 19,00

Lo spirito demartiniano nel cinema etnoantropologico.

Proiezioni: Luigi di Gianni, Magia lucana (1958) – Il male di San Donato (Festival dei Popoli, 1965); Gianfranco Mingozzi, La vedova bianca (1961) – Tarantula (1962); Edoardo Winspeare, Pizzicata (1995). Introduce Francesco Marano, docente di Antropologia visuale (Università della Basilicata).
A seguire,
Figure dal Cristo leviano: mise en espace (18’) a cura di Francesco G. Forte, con Margherita Rago e Giuseppe Basta

 

MERCOLEDÌ 16
CONVITTO NAZIONALE TASSO – BIBLIOTECA, DALLE ORE 19,00

La Lucania di Levi nel documentario italiano: Massimo Mida, Mario Carbone, Teche Rai
Cristo s’è fermato ad Eboli (1979), regia di Francesco Rosi, con Gian Maria Volonté, Irene Papas, Alain Cuny, Lea Massari, Paolo Bonacelli.
Introduce Pasquale Iaccio, docente di Storia del cinema (Università di Salerno).
A seguire,
Concerto (dimostrativo) di taranta e pizzica, a cura dell’antropologo Claudio Preziosi